IDROCARBURI O MARE PULITO?

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Il referendum del 17 aprile sulle estrazioni di petrolio e gas in mare

di Dario Predonzan

La posta in gioco è notevole e forse proprio per questo c’è chi cerca di parlarne il meno – ed il peggio – possibile.

Accade con il referendum abrogativo del 17 aprile, sulle estrazioni di idrocarburi in mare, in merito al quale i media principali (compresa la TV pubblica, pagata col canone …) preferiscono la strategia del silenzio e della disinformazione, che solo negli ultimi giorni mostra delle crepe.

Vero è che l’argomento tocca assai da vicino gli interessi di soggetti molto potenti, come le società petrolifere (tra le quali l’ENI), use a investire molto in pubblicità su giornali e TV…

Il quesito referendario

 

A differenza degli altri referendum tenutisi finora, quello del 17 aprile è stato indetto su richiesta di nove Consigli regionali (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto), anche se la campagna è condivisa da un’ampia serie di associazioni ambientaliste, categorie economiche e forze sindacali.

Il quesito sottoposto al voto chiede se si intenda abrogare la norma – introdotta con la legge di stabilità del 28 dicembre 2015 – che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Se prevarranno i SI, le attività petrolifere più vicine alle coste cesseranno quindi progressivamente, secondo le scadenze (di 30 anni) fissate al momento delle concessioni a suo tempo rilasciate alle varie società.

L’obiettivo finale è perciò quello di giungere a un divieto assoluto, anche se non immediato, dell’estrazione di idrocarburi nelle acque territoriali italiane (il cui limite, come noto, è fissato a 12 miglia nautiche dalla costa). Non immediato perché in caso di vittoria dei SI l’estrazione continuerà negli impianti esistenti, fino alla scadenza delle rispettive concessioni.

 

Le motivazioni ambientali

 

Gli impianti – le cosiddette “trivelle” – per l’estrazione di petrolio e gas nei mari italiani sono più di 130, di cui 35 entro le 12 miglia dalla costa.

Meglio non pensare a cosa succederebbe, in bacini di limitata estensione come quelli che circondano la penisola e le isole, se si verificasse un disastro analogo a quello della piattaforma Deepwater Horizon della B.P. nel Golfo del Messico, dove tra aprile e agosto 2010 si sversarono in mare centinaia di migliaia di tonnellate di petrolio. Pesca e turismo ne sarebbero devastati per anni, se non decenni: del resto non più del 30 per cento del petrolio sversato può essere recuperato.

Anche nell’attività normale, tuttavia, l’estrazione di idrocarburi dal mare ha pesanti impatti negativi sull’ecosistema. Greenpeace ha chiesto al Ministero dell’ambiente i dati sui monitoraggi ambientali previsti per legge intorno alle piattaforme, riuscendo ad ottenere – non senza fatica – quelli relativi alle 34 piattaforme per l’estrazione del gas, attive in Adriatico. Nulla sulle altre: forse perché i dati, per quelle, non esistono…

Il rapporto così redatto da Greenpeace è allarmante. Emerge infatti che i sedimenti dei fondali marini intorno alle suddette 34 piattaforme, in circa il 70 per cento dei casi sono inquinati oltre i limiti fissati dalle norme europee. Si tratta di metalli pesanti (cromo, nichel, piombo ma anche cadmio, arsenico e mercurio) e di idrocarburi policiclici aromatici – tra i quali sostanze cancerogene – che possono entrare nella catena alimentare ed arrivare all’uomo. Analoga la situazione delle cozze raccolte nei pressi delle piattaforme, risultate contaminate nell’86 per cento dei casi da mercurio e nell’82 per cento da cadmio.

Eppure, di fronte alla prova di contaminazioni superiori ai limiti ammessi, nessuno ha preso alcun provvedimento (sospensione della concessione o chiusura dell’impianto). Vuoto normativo? O qualche soggetto è “più uguale degli altri”?

 

Le motivazioni economico-strategiche

 

Gli oppositori del referendum sostengono la vittoria dei SI rappresenterebbe un colpo mortale per l’industria energetica e per i rifornimenti di petrolio e gas sul mercato italiano. In realtà, le “trivelle” in attività entro le 12 miglia dalla costa forniscono meno dell’1 per cento del petrolio e circa il 3 per cento del gas consumati annualmente in Italia. Consumi che si vanno – per fortuna! – riducendo (del 33 per cento quelli di petrolio e di quasi il 22 per cento quelli di gas, tra il 2005 ed il 2015).

Le riserve certe di gas e petrolio sotto i mari italiani sono poi modestissime: se dovessimo far conto soltanto su di esse, potrebbero coprire il fabbisogno nazionale di petrolio per 7 settimane e quello di gas per 6 mesi.

Va poi sottolineato il problema della subsidenza del suolo, prodotta anche dall’estrazione di gas in mare e già molto grave lungo le coste dell’Emilia Romagna. Tra il 1950 ed il 2005, infatti, per l’abbassamento di un metro della fascia costiera, sono andati perduti circa 100 milioni di metri cubi di sabbia, con un danno stimato pari 1,3 miliardi di Euro (contro i 7,5 milioni di Euro in royalties, versati ogni anno dalle compagnie petrolifere). Non c’è quindi proporzione tra il costo economico dei danni prodotti – quello della contaminazione dei fondali e degli organismi marini non è nemmeno quantificabile … – e gli introiti per l’erario dall’estrazione di idrocarburi in mare.

La norma oggetto di referendum contraddice poi gli impegni sbandierati durante e dopo la COP 21 di Parigi sulla lotta ai cambiamenti climatici. Se è urgente, come il mondo scientifico ripete da anni e anche quasi tutti i Governi – compreso quello italiano – hanno finalmente ammesso, ridurre al più presto l’uso di combustibili fossili a favore delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, continuare a privilegiare i signori del petrolio e del gas è un assurdo passo indietro.

 

La posta in gioco non riguarda soltanto il mare, le “trivelle” e la politica energetica

 

Il 17 aprile non si voterà soltanto per tutelare l’ambiente marino e per mettere un freno ad attività incompatibili con un uso sostenibile del mare e delle coste.

La strategia scelta dal Governo Renzi – proprio come già tentò di fare nel 2011 il Governo Berlusconi – non è infatti quella di fare campagna a favore del NO, bensì di incentivare l’astensione per non far raggiungere il quorum del 50 per cento più uno degli elettori, necessario affinché il risultato del referendum sia valido. Esattamente come nel 2011, quindi, il Governo non ha voluto accorpare la consultazione sulle “trivelle” con le elezioni amministrative dei primi di giugno (che interesseranno moltissimi Comuni in tutta Italia), anche se ciò comporterà un ovvio incremento di disagi per le scuole e di spesa per lo Stato (ma tanto pagherà Pantalone …). A ciò si aggiunge la già citata strategia del black out informativo.

Così, da un lato il Governo si schiera a tutela degli interessi delle società petrolifere, tra le quali spicca l’ENI, di proprietà statale. Dall’altro però, incentivando l’astensione si rischia di assestare un colpo forse mortale all’istituto stesso del referendum abrogativo, che rappresenta uno dei pochissimi strumenti efficaci a disposizione dei cittadini, per contrastare le scelte negative del Governo e del Parlamento. Uno strumento, non a caso, sempre osteggiato a prescindere dal colore politico dei Governi e delle maggioranze che li sorreggono.

Votare il 17 aprile è quindi importante, anche indipendentemente dal voto che si esprimerà: si tratta di difendere un fondamentale strumento di democrazia dall’arroganza della “casta”.

Si vota soltanto domenica 17 aprile, dalle 7 alle 23, muniti della tessera elettorale e di un documento di identità.

 

Per saperne di più:

 

www.fermaletrivelle.it

 

www.greenpeace.org/italy

 

www.legambiente.it

 

www.wwf.it (bisogna attendere che sulla home page appaia il banner sul referendum)