La libertà di essere Angelo

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Un tributo e un racconto

di Francesca Schillaci

 

«Ma io non voglio sapere qual è la scorciatoia. Non potrei immaginare un viaggio senza perdermi, perché mi piace tornare sui miei passi, chiedere informazioni importunando tutti, suore e barboni compresi, perdere tempo investendolo in vita. E magari fermarmi un po’ ad ascoltare le storie che di solito si impigliano nella rete delle strade. Sempre che questo non indispettisca gli interlocutori».

Credo che questo passo tratto da Vino e Libertà, sia un pezzo di cuore che racconta e svela la figura di Angelo Floramo. Irrequieto e indomabile, ha iniziato a viaggiare da giovanissimo per andare in cerca delle sue radici, sparse tra le terre dei Balcani e la Sicilia, per mescolarsi poi con i colli friulani, la durezza del dialetto, le tradizioni simili a quelle degli istriani, almeno per quanto riguarda il culto del mangiare e del bere. La prima volta che ci siamo incontrati stava scrivendo Vino e Libertà, l’ultimo libro di racconti di viaggio uscito con la casa editrice BEE a gennaio di quest’anno, ma ci sentivamo già regolarmente per mail e per messaggi. L’ho conosciuto con L’osteria dei passi perduti, un libro trovato fra i tanti che mi fissavano in libreria, ma a differenza del suo non mi dicevano niente. Dopo averlo letto, ho desiderato conoscerlo solo per poterlo ringraziare. Avevo deciso che quel libro sarebbe venuto nella tomba insieme a me quando sarebbe arrivato il momento, vicino a La Nausea di Sarte e a Tropico del Cancro di Henry Miller. Mi aveva cambiato qualcosa dentro. Il minimo che potessi fare era ringraziarlo. Con Sarte e Miller non ne avevo avuto la possibilità, non volevo di certo perdermi questa. Ricordo che si commosse. Io, dal canto mio, mi sentii un’idiota per il mio gesto spontaneo che contraddistingue molte delle mie storie, un gesto che spesso è stato ampiamente frainteso da altri scrittori e artisti, o peggio ancora, deriso. Da quel momento è nata una profonda amicizia, basata sulla condivisione del nostro approccio totalmente anticonvenzionale nei confronti della scrittura, così come della letteratura. Entrambi le consideravamo – e le consideriamo ancora – due affascinanti muse che ci avevano scelto in fasce e ci avevano dannato alla loro stregua. Ma soprattutto, con Angelo ho condiviso l’amore per le osterie, la sensazione di sentirsi a casa per chi una casa non ha mai capito bene dove sia, il desiderio di condividere dei canti e dei bicchieri, ascoltare storie e ogni tanto imprecare in faccia ad un sistema in cui spesso è doloroso starci dentro. Nonostante la sua fama in Friuli Venezia Giulia, data dalle pubblicazioni di libri con Bottega Errante e Newton Compton Editori che lo vede costantemente impegnato in conferenze, presentazioni, riunioni da unire al suo lavoro di professore di Letteratura e Storia a Gemona del Friuli, Angelo è rimasto umano e continua ad accogliere chiunque voglia ringraziarlo e scambiare due parole con lui. Nulla della vita intellettuale di chi ce l’ha fatta, di chi ha parlato alla gente e la gente l’ha riconosciuto al punto da potersi sentire superiore, nulla di questo l’ha sfiorato.

Fu con la Veglia di Ljuba, l’opera che scrisse per “scontare una pena con suo padre”, come disse lui, che decisi di avvicinarmi alla letteratura dell’est. Nessuno prima ci era riuscito, nonostante io viva a Trieste da sedici anni e abbia l’abitudine di trangugiare un centinaio di libri all’anno, un po’ per lavoro, un po’ per propensione naturale. Al contrario, sentire parlare di qualunque autore triestino o di poco oltre confine mi faceva automaticamente allontanare dalla lettura, vista l’estenuante ridondanza dei nomi e degli intellettuali che ne parlavano. In nessuno trovavo l’anima. Perché nessuno, mentre ne parlava, la sapeva trasmettere.

Mi piace la gente che incontro, specialmente se si porta addosso l’odore di quell’umanità minore che è anche il mio. È un privilegio, sempre, incontrare le facce, gli occhi, i sorrisi. Le mie storie sono tutte per loro.” Scrive così, in Vino e Libertà, il libro che per la prima volta dopo Come papaveri rossi, esce dai confini friulani per portare il lettore nel mondo, là dove Angelo negli anni è andato alla ricerca di storie, di vite, di facce da conoscere. Di anime da rubare. Quasi in ogni racconto ci sono personaggi realmente vissuti e incontrati, dal prete anarchico di Belfast che uccise per la libertà delle sue idee, fino a Bohumil Hrabal nei bassifondi di Praga, quelli che i turisti non visitano mai, dove lo scrittore ceco era riconosciuto dalle persone dei quartieri per la sua onestà intellettuale, per aver scritto la vita degli operai altrimenti dimenticata, «un’umanità fatta di donne e uomini che risuonano solo in bemolle e percorrono sempre scale minori». Angelo non ha incontrato Hrabal, ma l’amico storico Egon Bondy, il filosofo e poeta underground della Praga degli anni Sessanta «un vecchio che non si toglieva mai il basco nero dalla testa e la cicca dalle labbra». Lo stesso è accaduto con l’intellettuale anarchico Armand Gatti, a la Gare de l’Est di Parigi che lo invita a restare a cena con lui per raccontargli la sua storia, in una bettola dove si riunivano i giovani che volevano ascoltarlo, uno di quei posti che chiami casa ancora prima di sederti. Un luogo che oggi forse è diventato un supermercato. Baudelaire e Pessoa li ha assaporati nei piatti e nelle letture, nelle parole di qualcuno che gli ha parlato di loro, fosse in sogno o seduto in una tabaccheria, Angelo li ha incontrati. Ma i personaggi più reali, vivi, sono quelli che non hanno una pagina su Wikipedia, nessuna copertina con il loro nome stampato, né qualcuno che sappia narrare la loro storia, a parte Angelo. È zio Duccio, l’espatriato istriano finito in Australia e tornato per essere seppellito nella sua terra di vino duro e canti tristi, tanto quanto Emeric che voleva solo il diritto di non essere fascista e per questo fu deportato. Ogni storia porta con sé un odore, un paesaggio e un sapore. Come se a raccontare queste vite ci fosse bisogno di onorarle sempre con un banchetto, perché altrimenti come si mandano giù i bocconi amari?

E poi c’è l’anarchia, un termine così faticoso da utilizzare oggi, perché al solo sentirlo c’è chi si irrigidisce ripiegandola su un’idea di terrorismo, chi invece la deride o la usa in modo improprio, neanche fosse una moda. Per parlare di anarchia, Angelo ha lasciato la parola a chi l’ha saputa praticare nella rivoluzione dei gesti e spesso dei silenzi, per non lasciare che un’idea così pura e allo stesso tempo concreta nella sua funzione individuale e sociale, venga ancora privata della sua naturale essenza: «L’ubriacatura della libertà è l’unico grido possibile di ribellione in un mondo che uccide in nome della razionalità, della convenienza, della rispettabilità. Della fede o del capitale. E della ragion di stato».

Quel che resta, per quanto mi riguarda, è la bellezza: nella poetica della parola di Angelo e di chi come lui sa sentire senza tradirsi, nei disegni che ho visto in ogni pagina dei suoi libri, nelle chiacchierate dentro le osterie che non ci bastano mai e che credo rincorreremo sempre, magari solo per incontrarsi ancora una volta, abbracciarsi, bere un bicchiere e decidere che la libertà è una questione personale solo fino a quando non viene condivisa.

 

Riquadro:

 

Angelo Floramo, classe 1966, vive a San Daniele del Friuli, insegna Letteratura e Storia a Gemona del Friuli ed è convinto che sia ancora il lavoro più bello del mondo. Ha pubblicato per Bottega Errante (BEE) Balkan Circus, L’osteria dei passi perduti, Il fiume a bordo, La veglia di Ljuba, Come papaveri rossi, Vino e Libertà, Guarneriana segreta. I testi storici come Il Friuli che nessuno conosce, Guida curiosa ai luoghi insoliti del Friuli, Breve storia del Friuli, Forse non tutti sanno che in Friuli, sono pubblicati con Newton Compton editori.

 

Angelo Floramo

Vino e libertà

Bottega Errante, 2023

  1. 232, euro 17,00

 

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Angelo Floramo