Un’americana a Parigi

| | |

Georgia O’Keeffe al Centre Pompidou

di Alessandro Busdon

 

Georgia O’Keeffe (1887 – 1986) è una di quelle figure che hanno forgiato la mitologia americana, non solo per le sue opere che reinterpretando il paesaggismo americano finiscono per aprirsi all’astrattismo, ma anche per la sua fiera personalità che, dopo aver attraversato il mondo artistico newyorkese provocando qualche scandalo, finisce per isolarsi in una fattoria del Nuovo Messico, circondata dal deserto, alla riscoperta dello spirito originario dei pionieri. Il Centre Pompidou di Parigi le consacra un’ampia retrospettiva fino al 6 dicembre.

È conosciuta principalmente per le sue grandi rappresentazioni floreali (121,9 x 101,6 cm) che hanno suscitato interminabili dibattiti sulla possibilità o meno di reperirvi esplicite allusioni sessuali. Cosa che la O’Keeffe ha negato decisamente nelle sue ultime interviste, ma che negli anni giovanili ha maliziosamente lasciato alimentare. Si vedano in particolare le sue prime composizioni del 1919 (White e Blue Flower Shapes) ma che forse possono essere reperite anche in alcuni paesaggi del 1941 (Black Hills with Cedar). Più o meno coscienti possano essere, fanno senz’altro parte della visione panica che la pittrice aveva della natura, una forza rigeneratrice pervasa di bellezza e sensualità. Tale visione può essere riscontrata a mio parere anche in alcune delle sue prime opere astratte. Serie I, No. 8, 1919 rappresenta una specie di onda che si avvolge in spirale composta da fasci di vividi colori che passano dal blu al violetto, al rosso, all’arancione fino ad un luminoso giallo dominante al centro. Come non vedervi una sorta di élan vital, anche se la didascalia dell’esposizione parla piuttosto di sinestesia, di «una ricerca di equivalenti visuali della musica […] di pulsazioni armoniche di onde sonore risuonanti nell’aria». Una cosa non esclude per principio l’altra.

Questa visione panica viene affinandosi diventando in qualche modo più mistica, con la frequentazione dei vasti paesaggi del Nuovo Messico. Il deserto favorisce la semplificazione delle forme, ma anche l’intuizione di come la vita e la morte, il dolore e la gioia, la fatica e la soddisfazione sono strettamente intrecciate e si alternano in un unico ciclico movimento. «Le ossa sembrano andare al cuore di ciò che il deserto ha di profondamente vivo» – affermerà. Il teschio di un ariete con accanto una malvarosa bianca che flottano in un cielo tempestoso sopra un orizzonte ondulato di desertiche colline è un altro dei suoi dipinti più conosciuti (Ram’s Head and White Hollyhock, 1935).

Ma forse più ancora significativa è l’elaborazione formale cui sottopone la riproduzione di un osso del bacino di un bovino recuperato nelle sue lunghe e solitarie camminate. (Pelvis with the distance, 1943, Pelvis IV, 1944). Nella prima, l’osso d’una bianchezza lucente, ridotto a gigantesca pura forma, flotta leggero nell’aria stagliandosi sull’azzurrità limpida del cielo del deserto. Nella seconda, un particolare dell’osso riempie l’intero riquadro, presentando al centro solo la sagoma ben definita di uno dei due fori che lo compongono. Questo foro diventa il varco dal quale si può intravedere, pressoché fuso nel blu del cielo, il disco lunare (o solare). Al di là dell’elaborazione formale e cromatica che mira all’astrattismo, al di là di possibili richiami agli accostamenti gratuiti del surrealismo, come non attribuire a questo quadro allusive significazioni esistenziali: la ricerca di una nuova vitalità al di là di quella che rischia di apparire morta (osso pelvico essicato), una vitalità più contemplativa e mistica. Non a caso il quadro è stato dipinto durante il periodo della guerra e la O’Keeffe, se ha sempre negato affinità col surrealismo si richiamava piuttosto all’eredità del romanticismo tedesco.

Questa volontà di trascendersi, più in chiave esistenzialista che religiosa, questa ricerca della sobrietà, della purezza e della luminosità può essere a suo modo ravvisata anche nei suoi dipinti newyorchesi. I grattacieli che dipinge quando era andata a convivere con Alfred Stiegliz, il noto gallerista della Fifth Avenue, al 28° piano dello Shelton Hotel, non si limitano a «esaltare la modernità urbana e la dinamica verticale che ne è il simbolo» come affermano le didascalie dell’esposizione, ne rivelano piuttosto, a nostro avviso, il rapporto contrastato con la modernità e con la stessa città, che confesserà in seguito di non avere mai veramente amato. Le prospettive vertiginose, prese dal basso verso l’alto, e lo stile geometrico possono richiamare un certo futurismo, d’altronde siamo alla metà degli anni Venti, ma lo spirito è diverso. Le sagome dei grattacieli si ergono scure, creando uno spazio quasi claustrofobico in The Shelton with Sunspots, N. Y., 1926. Quello che interessa alla pittrice sono i giochi di luce che si riflettono su questi giganteschi edifici di cemento e vetro. E la luce artificiale d’un fanale in primo piano gioca in contrapposizione con quella della luna sullo sfondo, in alto a destra (New York Street with moon, 1925). Ancora una volta lo sguardo, percorrendo i giganteschi edifici, affascinanti quanto inquietanti, cerca uno spazio aperto, uno scorcio di cielo che s’intravede nella parte superiore e spesso ristretta del dipinto. Non a caso la O’Keeffe passerà ben presto, negli anni Trenta, a riprendere le composizioni floreali della giovinezza, ma in formato blow up, in quella taglia ravvicinata e ingigantita che l’hanno resa famosa.

Quello che trovo di più moderno e interessante nel suo percorso pittorico è la sua oscillazione tra l’astratto e il rappresentativo che in molti quadri raggiunge la sua perfezione formale. I suoi ultimi quadri pertanto, anche se virano sempre più verso l’astratto, sono densi di esperienza vissuta. Il patio della sua fattoria si trasforma in un muro grigio-ocra trasversale che lascia intravedere in alto un triangolo di cielo e che al centro presenta una porta sotto forma di rettangolo nero, dei tratti rosa-arancionati in basso,paralleli all’andamento del muro, suggeriscono un cammino e danno profondità alla porta (Patio with Cloud, 1956).  Ancora una volta una soglia e un percorso! Per divenire in seguito un semplice rettangolo nero su sfondo bianco con in basso piccoli tratti grigi sopra una striscia dello stesso colore, in stile puramente astratto (My last door, 1954). Composizione che si declinerà poi in varie serie di colori. O i dipinti ispirati da alcune vedute aeree di corsi d’acqua ai quali l’artista, modificandone i colori e esasperandone la tortuosità dà loro una valenza decisamente astratta (Green Yellox and Orange, 1960). Infine una rappresentazione del deserto fatta a tenui bande colorate che sfumano una nell’altra (Yellow Horizon and Clouds, 1977) in sintonia con l’astrattismo di Rothko, ma che tuttavia mantiene persistente un sottile legame con i paesaggi tanto amati.

Una delle opere più affascinanti e innovative, resta a mio avviso Winter Road 1963, che, per quanto anticipi di poco Road to Ranch 1964, ne sembra la sua ulteriore rielaborazione in chiave astratta, accentuandone così, ancora una volta, la sua valenza esistenziale. La tela del tutto bianca è attraversata da una ampia e sinuosa curva era che va assottigliandosi dal basso  verso l’alto per finire con un nuovo guizzo in alto a sinistra. Il cammino di tutta una vita?

 

 

Series I White and Blue

Flower Shapes

olio su tavola,1919

Georgia O’Keeffe Museum

Santa Fe, New Mexico (USA)