La mini

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di Giuseppe O. Longo

 

 

Da anni sognavo di comprarmi una Mini. Un amico mi mise in contatto con un tizio che ne vendeva una, usata ma in ottimo stato. Ci mettemmo d’accordo sul prezzo e concludemmo rapidamente l’affare. Toccavo il cielo con un dito, me ne andavo in giro con la Mini e il rombo del suo motore mi esaltava: era un rombo trattenuto ma potente, sembrava un trattore alle prese con un sentiero in forte salita anche quando la strada era piana. Era proprio una bella macchina, un congegno ben progettato e ben costruito. Un giorno mi accorsi di uno strano rumore che proveniva, così pareva, dal motore. Ci misi venti minuti a scoprire come si apriva il cofano, del resto io sono un letterato, mi occupo di traduzioni dal russo, non mi sono mai interessato di meccanica, la Mini per me aveva un valore simbolico e trascendente, ma quel giorno capii che era un oggetto materiale, che poteva guastarsi. Ispezionai il motore, ma era ovvio che non ci capivo niente, vedevo dei cavi, dei contenitori, delle tubature… Telefonai al mio amico, mi diede l’indirizzo di un meccanico che riparava le Mini, non tutti i meccanici vogliono metterci le mani, sono macchine particolari, mi disse e queste parole mi diedero una vaga inquietudine. Mi diressi verso l’officina, il rumore persisteva, anzi pareva aumentare, era una sorta di soffio ritmico, come di un animale nascosto nel folto di una selva. Quando arrivai fui accolto dai latrati di un tipo ringhioso, si sposti, non vede che ingombra il passaggio, io feci manovra e il meccanico sembrò chetarsi. Era un tipo basso, ma straordinariamente robusto, che sembrava a suo agio in quello spazio angusto, occupato da alcune Mini di vari colori (la mia era gialla, il colore perfetto per una Mini…) e da una congerie di attrezzi e arnesi sparsi a terra o accatastati su due banconi dal piano morchioso. Dopo una mezzoretta, durante la quale il tipo basso si era dedicato a una Mini verde bandiera, orribile, e l’aveva riparata, visto che poi l’aveva messa in moto e spostata sul marciapiede, che costituiva una sorta di prolungamento del suo antro, finalmente si rivolse e me, che cosa vuole, vorrei che desse un’occhiata alla mia macchina, ha qualcosa che non va. Mi guardò con aria feroce, cioè?, vede, poco fa… m’interruppe, deve dirmi che cos’ha la sua macchina, altrimenti che cosa posso fare? Considerai il suo punto di vista, che mi parve ragionevole, ma io non sapevo come aiutarlo. Forse… forse è lo spinterogeno… ma appena pronunciate queste parole me ne pentii. Che cosa fosse lo spinterogeno non lo sapevo allora e non lo so adesso, ma la parola mi piaceva, aveva qualcosa di arcano. Il tipo basso mi guardò con compatimento, si strofinava le mani impiastricciate sulla tuta azzurra, speriamo di no, altrimenti è un macello. Aprì il cofano, ispezionò il motore e poi cominciò un interrogatorio serrato. Che cos’è questo? e questo? dov’è la batteria? e il radiatore? Io ero del tutto perso, le sue domande mi colpivano come sassi piccoli e durissimi, mi ferivano, balbettavo, tentavo di dire qualcosa, ma non riuscivo a difendermi. Alla fine il meccanico smise di torchiarmi, mi guardò con disprezzo ed emise il suo verdetto, lei non può guidare una Mini, è una macchina delicata, che richiede sensibilità e attenzione. Dopo tanto abbaiare aveva adottato un linguaggio pacato, quasi aulico, mi venne voglia di abbracciarlo e di chiedergli perdono, capivo di averla fatta grossa, io, del tutto digiuno di meccanica, avevo osato entrare nel ristretto circolo dei possessori di Mini senza averne alcun titolo, lui mi guardava di sotto in su, severo, ma si vedeva che era disposto a concedermi l’assoluzione, bastava che gliela chiedessi con umiltà, con sincero pentimento, mi pareva di essere tornato indietro di anni, quando mio padre mi puniva per qualche marachella e adottava la politica del silenzio, che mi straziava. Infine il meccanico mi graziò, lasci perdere la Mini, si comperi una Seicento. Con un atto di infame abiezione gli diedi la mano e lo salutai.