Elogio dell’ombra

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Questo saggio è un esempio di come si possa parlare di letteratura senza nominarla (quasi) mai

di Luisella Pacco

 

Due settimane, l’ultima d’aprile la prima di maggio, proprio mentre fiorivano i ciliegi, tanti anni fa. Questo è stato. Un rapido morso ad un frutto sconosciuto che certo quel morso non bastava a rendermi familiare. Per comprenderne il sapore, per disvelare almeno in parte il mistero, sarebbe servito molto più tempo. Due settimane non bastano. Non credo basti una vita. Di quel viaggio in Giappone porto con me un ricordo sempre più pallido e sfuggente, ma suggestivo e dolce, e pieno di rimpianto.

Ci ripenso in questi giorni. Un testo bizzarro mi è capitato tra le mani. Libro d’ombra di Junichiro Tanizaki, pubblicato nel 1935. Arrivato in Italia nel 1982, ebbe questo titolo perché quello che sarebbe stato più fedele all’originale, cioè Elogio dell’ombra, esisteva già (era un libro di racconti di Borges). Ma di elogio si tratta, teniamolo a mente.

Tanizaki (1886-1965) è stato uno degli autori giapponesi più importanti del Novecento. Ha scritto moltissimo. La sua opera omnia pare occupi 28 volumi. Eppure la maggior parte di noi lo conosce (qualora lo conosca) soltanto per La chiave (1956).

Il romanzo consiste di due diari che un maturo professore e la moglie di qualche anno più giovane tengono in segreto, ma con la speranza che l’altro legga. Argomento principale delle confidenze al quaderno sono l’insoddisfazione sessuale e i tentativi di riaccendere la passione anche grazie a un pericoloso gioco di gelosie. Ikuko (la moglie) “è spinta sotto gli incalzanti stimoli erotico-voyeuristici del marito, verso il risveglio di una sessualità e un sadismo dormienti” (così scrive Gian Carlo Calza, nella postfazione a Libro d’ombra (Bompiani, 1982) in cui passa in rassegna brevemente tutta l’opera dell’autore).

In Italia ne è stato tratto un noto film del 1983 per la regia di Tinto Brass. Non l’ho mai visto. Forse un giorno lo vedrò, per curiosità, ma credo di indovinare che nessuna adesione avrà con il romanzo, né il fascino tutto italiano di Stefania Sandrelli può avere qualcosa in comune con quello di Ikuko, per il semplice fatto che Giappone e Italia sono due mondi sideralmente distanti. Lo sono nella gestione della cosa pubblica come in quella privatissima dell’intimità, del corpo, dell’amore, dei sorrisi, dei silenzi.

Lo stesso romanzo ci rimane in parte inconoscibile. Troppe cose vanno perdute nella traduzione. Succede sempre, naturalmente, anche con lingue che più ci sono vicine, ma qui il tradimento è per forza di cose più netto e tristemente irresolubile. Basti dire che nel diario di lui c’è moltissimo katakana (più quadrato, virile), mentre il diario di lei abbonda di hiragana (più sensuale, morbido), sicché la differenza tra i due diari è anche grafica, immediata all’occhio. In italiano, invece, cerchiamo avidamente il primo riferimento maschile o femminile per capire chi sia il narratore.

La mia prima impressione leggendo La chiave fu che fosse cervellotico ripetitivo piatto, che mancasse uno sfondo, un passato, radici e background dei personaggi e della loro storia (una profondità di campo, potremmo dire, visto che la fotografia nel romanzo c’entra molto). Né riuscivo a muovere i personaggi in una scenografia che mi apparisse chiara.

Ecco, per una mia curiosa impressione, Libro d’ombra mi offre quella parte, le atmosfere, gli oggetti, le abitudini quotidiane così lontane dalle nostre.

Questo saggio è un esempio di come si possa parlare di letteratura senza nominarla (quasi) mai, ma anzi dedicando parole raffinatissime, perlescenti a cose banali, pratiche, persino sordide, della stretta tradizione giapponese.

Se e come utilizzare un ventilatore elettrico («mai, vuoi per il ronzare vuoi per la forma, potrebbe armoniosamente inserirsi in una stanza giapponese»), come sia meglio costruire uno shoji (il tramezzo scorrevole a quadrati di carta bianca), come affrontare il problema del riscaldamento («non esiste stufa occidentale che si adatti a un ambiente giapponese»), ecc…

In alcune parti, nel parlare di oggetti all’apparenza semplici, Tanizaki tocca la pura poesia.

La carta, ad esempio.

«La carta, dicono, è invenzione cinese. Io posso dire soltanto che la carta occidentale altro non mi trasmette che l’impulso a usarla; se invece mi chino a osservare una carta cinese o giapponese, a poco a poco mi sento invaso dalla quiete e dal tepore. La bianchezza stessa è diversa. Se la carta occidentale sembra respingere la luce, quella cinese, o giapponese, la beve lentamente e la sua morbida superficie è simile al manto della prima neve. È una carta cedevole al tatto e che si lascia piegare senza rumore. È placida, delicata, leggermente umida. Somiglia alle foglie degli alberi».

E che dire della patina che si forma, ad esempio, sull’argenteria e che gli occidentali si accaniscono a lustrare?

«Prediligiamo, in Giappone, utensili alquanto più foschi […] più li apprezziamo quanto, perduta la brillantezza d’origine, acquistano la scura patina del tempo […] ben sapendo che è prodotta da mani sudate, da polpastrelli unti, da depositi di morte stagioni; la prediligiamo per quel lustro e quegli scurimenti che ci ricordano il passato e la vastità del tempo».

E ovviamente, come vuole il titolo, Tanizaki ci parla dell’ombra, elogiandone il valore per gli occhi e per l’anima.

Scrive Giovanni Mariotti nella prefazione: «L’Occidente ha privilegiato la vista, da cui è partito per la sua geometrizzazione dell’esperienza, e ha così svalutato altre sensazioni (uditive, olfattive, tattili…)».

Appunto contro questo squilibrio, Tanizaki reagisce nel suo breve saggio, polemizzando con gli eccessi dell’illuminazione elettrica e opponendovi invece tutta l’armonia e la pace della penombra.

Persino l’architettura – non solo di monasteri e palazzi imperiali ma anche di comuni abitazioni – mira, grazie all’immensità di un tetto di tegole o paglia, a creare ombra sotto le gronde.

«L’imposizione dei nostri tetti è simile all’apertura di un parasole».

Se la ricerca della luce, in Occidente, è spasmodica (tutto è studiato affinché ogni ambiente della casa riceva più sole possibile), al contrario «la spoglia eleganza delle stanze giapponesi è fondata per intero sulle infinite gradazioni del buio. […] Del sole fulgente che brilla sul nostro giardino non ci raggiunge che uno spento riflesso, filtrato attraverso la carta opalalescente dello shoji. Questa luce mitigata e indiretta è l’aspetto più importante della casa giapponese. Perché quietamente e silenziosamente penetri, lei così debole, estenuata e malinconica, nella nostra casa, rivestiamo i muri con intonaci di colore neutro […] i colori della sabbia […] Si tratta di tinte sfuggenti, che sembrano cangiare secondo lo stato d’animo di chi le guarda».

Viene davvero da chiederci che possiamo saperne, noi occidentali (ma anche i giapponesi di oggi), afflitti da luce perenne, da superfici di un biancore aguzzo che ferisce, da luoghi case e negozi illuminati alla massima potenza? Che ne possono sapere i nostri occhi, ormai disabituati alle sfumature, ignoranti delle infinite storie palpitanti nell’ombra?

Ma è nella descrizione del gabinetto ideale che Tanizaki raggiunge (nonostante l’argomento) autentiche vette d’elegia.

«Amabile cosa è il soggiorno delle nostre case ma solo il gabinetto giapponese è interamente concepito per il riposo dello spirito. Discosti dall’edificio principale, i gabinetti stanno accucciati sotto minuscoli cespi selvosi da cui viene odore di verde di foglie e di borraccina. È bello, là, accovacciarsi nel lucore che filtra dallo shoji, e fantasticare, e guardare il giardino. Tra i sommi piaceri dell’esistenza Natsume Soseki annoverava le evacuazioni mattutine […] sono necessari una lieve penombra, nessuna fulgidezza, la pulizia più accurata, e un silenzio così profondo che sia possibile udire lontano un volo di zanzare. […] Quando mi trovo in un simile luogo, molto mi piace udire la pioggia che cade con dolcezza uniforme […] Qui conviene, più che altrove, tendere l’orecchio a stridii di insetti o a canti di uccelli, e godere del chiaro di luna; qui è delizioso gustare melanconicamente i segni fuggitivi delle quattro stagioni».

Vi ho detto che questo libro tratta di letteratura (e poi vi parlo di piccoli elettrodomestici, di carta, di argenteria e di gabinetti!). Come?, dove?, vi chiederete.

Ebbene, è verso la fine che Tanizaki ci rivela il nesso. Dopo essersi dispiaciuto per il Giappone che già negli anni Trenta decideva di incamminarsi sulla via della cultura occidentale, aggiunge: «Ho scritto queste pagine perché penso che, almeno per certi ambiti, per esempio in quello dell’arte o della letteratura, qualche correzione sia ancora possibile. Vorrei che non si spegnesse anche il ricordo del mondo d’ombra che abbiamo lasciato alle spalle; mi piacerebbe abbassare le gronde, offuscare i colori delle pareti, ricacciare nel buio gli oggetti troppo visibili, spogliare di ogni ornamento superfluo quel palazzo che chiamiamo Letteratura».

Ecco, dunque: quel che mi sembrava un difetto ne La chiave, grazie a quest’altra lettura viene spiegato: non era mancanza di un “attorno”, era semplicemente ombra, il magico velo d’ombra che l’autore voleva poggiare con precisione sopra alle cose. Lavorare per sottrazione, si usa dire. La scrittura di Tanizaki sottrae, appunto: toglie nasconde cela. Sta in questo la sua forza strana, perturbante.

 

 

Junichiro Tanizaki

Libro d’ombra

Traduzione di Atsuko Ricca Suga

Bompiani, 2000

  1. 96, euro 12,00

 

1:

Junichiro Tanizaki

 

2:

Interno giapponese