Per caute sopravvivenze

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di Malagigio

 

CANCEL CULTURE

 

Espressione che nacque nel 2017 e che, come computer, mouse e profiterole, non ha equivalenti in italiano. Indica la pretesa di cancellare quelli cattivi dalla storia, e più in generale dalla memoria collettiva. Il presupposto – straordinariamente ottimistico – è che si sia trovata finalmente la chiave per distinguere una volta per tutte i buoni dai cattivi; e che della memoria di quelli cattivi si può, anzi si deve, fare a meno. Immaginate che bella la Bibbia con Abele e senza Caino.

Colpisce che finora i cancel-culturisti si siano prudentemente limitati a bersagli minimi: casuali scopritori dell’America che volevano andare in Giappone, registi e attori inclini a gusti e pratiche sessuali riprovevoli, scrittori ed editori portati all’adulterio… pesci piccoli, insomma. Direbbe invece Machiavelli: se proprio si vuol fare una cosa, la si faccia fino in fondo. Machiavelli fu messo nei guai da una lettera anonima che lo accusava di praticare la sodomia con la sua amante. Per sua fortuna, ai tempi non esisteva Instagram.

E dunque, qualcuno prima o poi dovrebbe proporre di puntare a bersagli più prestigiosi. Per esempio, sarebbe da fare un ragionamento coscienziosamente inquisitorio nei confronti di quel Signore che destinò alla donna e solo a lei i dolori del parto, che condannò a morte non solo i rei del primo furto della storia, ma i loro discendenti fino all’ultima generazione, che si pentì – con ottimi motivi del resto – di aver creato l’uomo e lo sterminò più volte, che ordinava al suo popolo eletto (condizione tutt’altro che comoda) di massacrare ora questi ora quelli. E questo non è che un debole riassunto.

L’indispensabile Simone Weil (1909 – 1943), fu molto più cancel di tanti zelanti di oggi: scriveva la Weil che, se Gesù, che è buono a amoroso, è Dio, quell’irascibile spaccatutto dell’Antico Testamento non può esserlo. La Weil riprendeva antiche dottrine – soprattutto gnostiche – secondo le quali l’unica possibile spiegazione degli infiniti pasticci combinati dall’iracondo “dio” dell’Antico Testamento, è appunto che non era Dio ma un impostore, il Demiurgo, il quale approfittò dell’ignoranza degli uomini e delle distrazioni del vero Dio in chissà quali cosmiche faccende affaccendato, per spacciarsi per Dio. Per fortuna, arrivarono Gesù e Sophia a rimettere a posto le cose.

Quel supposto Dio che massacra primogeniti e punisce Davide perché fa una guerra di meno di quelle richieste, ci sembra un obiettivo adeguato per un ragionamento cancel: o anche Lui, o nessuno.

 

 

INSAPUTA

 

«A sua insaputa» è un’espressione che è stata resa celebre dal caso di un uomo politico importante che si ritrovò all’improvviso proprietario di un prestigioso appartamento con vista sul Colosseo. Era il 2010. Si rivelò, per i giudici che furono chiamati ad esprimersi, un evangelico caso in cui il donatore ottemperò al comandamento di Cristo che impone che la mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Da allora è stata un’epidemia. Non c’è caso imbarazzante di cui il malcapitato, anche preso sul fatto, non dichiari che la cosa stava accadendo a sua insaputa. È un sollievo sapere che la legge non ammette ignoranza ma concede un salvacondotto alla sbadataggine.

«A propria insaputa» in fondo è una condizione essenziale dell’essere umano: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», implorò il Cristo in croce. Il grande filosofo Abelardo (XII secolo) teorizzò che i suoi onesti e coscienziosi carnefici, agendo a loro insaputa, sarebbero potuti andare in paradiso: in effetti, che ne sapevano del signore che stavano crocifiggendo? Dante stesso, sulla cima del Purgatorio, e cioè nel Paradiso terrestre, ci racconta di aver dovuto attraversare due fiumi: il Lete, per dimenticare le azioni malvagie commesse, e l’Eunoè, per ricordare le proprie azioni buone. Se persino nel suo Paradiso gioiscono anime rese ignare di quanto hanno combinato in vita, perché dovremmo prendercela con qualche banale evasore fiscale che proprio non ricorda che i soldi della mamma sono in Svizzera?

 

 

MELODRAMMA

 

Presto si notò che è quel genere di spettacolo molto italiano in cui un uomo colpito a morte, invece di cadere, canta. La definizione che diede Benito Mussolini dell’Italia come «Paese di poeti, santi e navigatori» è gravemente incompleta: l’Italia è prima di tutto un Paese di tenori. Tenori bravissimi a cantare la parte di poeti, santi, navigatori e di molto altro.

Del melodramma amiamo (dizionario Treccani) il tono «esagerato, teatrale, ostentatamente passionale». Dei tenori italiani, Mussolini fu un maestro. Il melodramma è il contrario della tragedia: della tragedia è l’enfatica e lacrimosa messa in scena. La tragedia annichilisce, sconvolge, rende muti: fa passare a tutti la voglia di cantare. Del melodramma la tragedia è il pretesto: quello che conta è che finalmente si canti. A fine spettacolo poi cala il sipario, e con gli occhi ancora umidi di pianto melodrammatico, si va tutti a cena.

Essendo una recita del dolore, il tono melodrammatico dà piaceri narcisisti incomparabili a chi v’indulge. Capita così di incontrare persone che non vedono l’ora di morire, non per stramazzare al suolo esanimi, ma per cantare. Si prestano molto scene di maledizioni, sonnambulismi e deliqui; irresistibili sono le agonie. Quello melodrammatico è dunque un talento per le scene madri, che chiameremo più correttamente scene mamma. Per tutto questo campionario ci sono persone specializzate, capaci di morire molte volte al giorno. Le migliori, mentre cantano si commuovono di sé stesse e si fanno piangere da sole. Il tono melodrammatico si confà soprattutto alla vita pubblica italiana: lì è una gara perenne a chi la canta meglio. I Do di petto pretendono applausi sfrenati. Se due tenori s’incontrano, invece di fare un duetto, si danno su con la voce. Quando la prestazione è perfetta, il pubblico dovrebbe implorare il bis, che viene in ogni caso concesso.

Del tono melodrammatico è molto gradito il gorgheggio, che corrisponde al climax, all’estasi finale: dopo aver trascinato il pubblico nel pathos incontrollabile, il tenore si abbandona con sapienza a un canto in cui non ci sono più vere parole, ma modulazioni virtuosistiche su singole vocali, in un su e giù melodico che incanta anche se non vuol dire più nulla.

Il dolore melodrammatico piace moltissimo perché dà sempre due gioie contemporaneamente che a un estraneo potrebbero apparire inconciliabili: da una parte lo sfogo di un dolore incontestabilmente buono (per la mamma, la figlia, l’amore perduto, la Patria afflitta, ecc.), dall’altra la molto italiana certezza che tutto è finto. Il dolore melodrammatico dura il tempo di quella che Coleridge chiamò «sospensione dell’incredulità»; alla fine della catarsi, non si vede l’ora di tornare tutti a ridere.

 

 

STRATEGIA

 

Di questi tempi, guai a non averne una. Ancora meglio: diverse strategie per ogni problema, tanto meglio se per impicciarsi dei problemi degli altri. La situazione perfetta è quando si resta inascoltati, e quindi non smentibili da alcun fatto. Stratega, come dice l’etimologia della parola, è un capo (agòs) di eserciti (stratòs), che quanto meno mangia meglio e vive più riparato della truppa.

Si sa che noi italiani ripudiamo le guerre (articolo 11 della Costituzione), ma che amiamo le conversazioni. Appena scoppia una guerra, prendono voce un gran quantità di ottimi strateghi delle guerre degli altri: guerre che combattono benissimo e vincono infallibilmente.

In verità, strategie occorrerebbe averne per moltissime cose, tutte complicate: il consumo del suolo nazionale, il cambiamento climatico, il decremento demografico, le infinite crisi economiche, lo sfascio della scuola, persino per la manutenzione delle strade, dei ponti e dei viadotti. Ma tutto questo ci risulta noioso. Ci viene più naturale, come all’indimenticabile Venditore di almanacchi di Leopardi, «una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti», insomma senza chissà che strategie. Generali nelle guerre degli altri, ci piace essere soldati sbandati nella nostra. Abbiamo in compenso una riconosciuta vocazione all’emergenza. Per darle sfogo, ci piace farci trovare impreparati, possibilmente catastroficamente impreparati. Forse perché l’impreparazione ci pare sorella dell’innocenza. Siamo sempre nati ieri.