Raccontare l’atrocità

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Un volume collettaneo su alcuni aspetti della narrazione della Shoah

di Fulvio Senardi

 

Il bel volume curato da Angela Fabris e Romano Vecchiet, Scrivere l’orrore – Letteratura e Shoah è una riflessione a più voci che tocca un argomento da molti, ormai, considerato esaurito. E, diciamolo subito, a torto. Nel passaggio dall’“era del testimone” alla stagione della post-memoria (post-memory, per dire con Marianne Hirsch della Columbia University) non tramonta bensì risulta più urgente l’esigenza di un costante richiamo alle nefandezze del “secolo breve” (una formula, da tempo entrata nel vocabolario comune, ma che pure veicola un imbarazzante eco di “orientalismo”: il mondo, dalle guerre di Jugoslavia al genocidio dei Rohingya, non è diventato meno “cattivo”, anche dopo, ironizzo naturalmente, la “fine della storia”).

Peraltro è evidente che ciò che cessa di essere memoria viva, tramandata dalla voce del testimone (nobile e commovente, a questo proposito, l’addio alla presenza pubblica di Liliana Segre, ad Arezzo, che possiamo riascoltare on line), ovvero il racconto del trauma nella sua portata personale e collettiva, trasferendosi dalla voce nei libri, va perdendo qualcosa in forza veritativa. Messi all’angolo, anche per via processuale, i più irriducibili negazionisti (mi riferisco ovviamente al caso Irving) la battaglia è lungi dall’esser vinta, perché l“era dell’incompetenza“, che attinge le parole d’ordine da quella cornucopia di cianfrusaglie che è Internet (oltre ad essere, per infinite ragioni, cosa buona), celebra, nei settanta milioni di voti ottenuti da Trump, la sua apoteosi, e sarebbe ingenuo pensare che ciò non rappresenti un problema etico e culturale enorme.

Proprio là dove tracce di antisemitismo sono state più incise nel passato, va a depositarsi la nuova intolleranza, quasi a dimostrazione della validità di quella legge della longue durée, dei tempi lunghi della storia, che spiega la tenuta di sorpassate strutture mentali. E la Germania, che più ha fatto per rieducare al rispetto dell’Altro (che poi in realtà Altro non era, ma una parte, perfettamente integrata, del grande cosmo di lingua tedesca del primo Novecento) è teatro della sua risorgenza, come si è visto, per citare l’episodio di maggior risonanza, nell’attacco alla Sinagoga di Halle dell’ottobre 2019. Dunque è bene che si parli, ancora ed ininterrottamente, di quella macchia che tinge di scuro il Novecento europeo e che a molti (Marcuse, per esempio), politicizzando (ma va passando di moda), è parso null’altro che il compimento di un percorso storico-antropolgico dove giungono a coincidere totalitarismo politico e iper-razionalità tecnica. Tanto più che, lo mette in rilievo giustamente Anna Baldini, il pericolo oggi non è tanto “l’oblio, quanto la semplificazione, se non addirittura l’assuefazione, alla memoria di quegli eventi passati” diffondendo una “percezione degli eventi astorica, edulcorata e intrisa di stereotipi”: una memoria insomma formato Netflix, con tutto quel contorno di indeterminato, adrenalinico e patetico che consente una fruizione urbi et orbi.

Ma veniamo a Scrivere l’orrore: gli studiosi che vi prendono la parola provengono da specializzazioni disciplinari diverse, sia pure tutte afferenti alle “humanities”, come ormai si dice in buon italese. Eppure il quadro che ne esce non è affatto frammentato, ma risulta invece coerente e ben organizzato.

Introduce il discorso Pier Vincenzo Mengaldo che ha il merito di ribadire alcuni punti cruciali del dramma storico della Shoah (un caso macroscopico, non dimentichiamoci mai di ricordarlo, di un contesto più generalizzato, e penso ad altri stermini perpetrati dalla Germania nazista, in primo luogo quello che vide come vittime quei popoli – rom, sinti, ecc. – che un tempo era uso chiamare popolarmente “zingari”) e della sua rappresentazione letteraria. La burocratizzazione della morte, in primo luogo, che poteva dare ai volonterosi carnefici di Hitler (mutuo ovviamente il titolo del libro di Daniel J. Goldhagen) l’alibi di eseguire semplicemente degli ordini, fenomeno che è anch’esso, proprio come il Lager, un “prodotto organico della modernità” (Mengaldo). Utile l’invito dello studioso a “vegliare criticamente sulle singole testimonianze”, nella consapevolezza che essa è, per statuto, un enunciato complesso e gravido di affettività. Gesto nobile ma, in casi estremi, perfino sviante (o strumentale, come ricorda Daniele Giglioli nel suo, volutamente provocatorio, Critica della vittima). Complessa è dunque la fenomenologia del trauma letteraturizzato, sul quale, come sovente su tali temi, è Primo Levi a pronunciarsi con razionalistica trasparenza: «un ricordo troppo spesso evocato», scrive ne I sommersi e i salvati, «tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese» (all’opposto, è stato sostenuto, per esempio da Laura Fontana, quanto sia indispensabile per un testimone-narratore potersi appoggiare a una dimensione anche estetica).

Particolarmente (e, ipotizzo, involontariamente) intonati con la congiuntura che stiamo vivendo, i saggi di Angela Fabris e di Giuliano Migliori, che hanno un doppio merito: in primo luogo di richiamare l’attenzione su una scrittrice-testimone non universalmente nota al di fuori del circuito degli specialisti, Liliana Millu, resistente e poi deportata in vari Lager (Auschwitz, Ravensbrück), dopo essere transitata nel campo di raccolta di Fossoli (di cui ha scritto anche Primo Levi nel suo libro più famoso) triste esempio – ne ha approfondito la storia Liliana Picciotto ne L’alba ci colse come un tradimento, 2010 – di collaborazione a livello politico-burocratico, in ordine al “problema ebraico”, tra italiani (gli alti gradi della Repubblica Sociale e, di nuovo, schiere di “volonterosi carnefici”) e tedeschi. Tra le più voci più significative della narrativa di testimonianza, Millu tramanda la sua esperienza nel romanzo del 1947 (poi più volte ristampato) Il fumo di Birkenau (testo «ingiustamente rimasto al confine, stessa sorte di molta letteratura femminile» – Migliori) per poi sposare il silenzio, per vent’anni, fino al nuovo romanzo del 1978: bell’esempio dell’urgenza di testimoniare e quindi dello svuotamento che segue lo sfogo, passo indispensabile per la ricostruzione del sé: ciò che Bruno Bettelheim, negli anni Cinquanta (ma è rimasto un suo tema privilegiato), ha chiamato pulsione alla testimonianza (“compulsion to bear fitness”). In secondo luogo, e proseguo su Fabris e Migliori, l’individuazione del corpo (e della sensazione) come campo di resilienza; proprio quel corpo (duramente messo oggi alla prova dall’infuriare dell’epidemia) che viene “espropriato” e “riconfigurato” (Migliori) per diventare pienamente funzionale all’interno della cupa caricatura di società che è il Lager, vero luogo di soglia che prepara la morte. Un tema che Angela Fabris esplora avvalendosi di strumenti critico-letterari, sottolineando il valore percettivo di un rapporto nonostante tutto possibile con la natura, tanto “catalizzatore di resilienza” che appiglio sensoriale per un sistematizzazione non autodistruttiva dei lacerti di memoria; mettendo in opera invece categorie filosofiche, sull’orizzonte della speculazione di Merleau-Ponty, da parte di Giuliano Migliori, secondo il quale, gli cedo la parola, «per i cosiddetti ‘sopravvissuti’ o ‘salvati’, esprimersi nel trauma della sofferenza e della perdita di un’identità, individuale e collettiva, significa esporre […] sia una pelle propria che altrui, sostanziale e immateriale, e il carattere cognitivo, una forma informe che oscilla tra l’umano e l’inumano, l’essere animale e l’essere atomo» (con tutto il rispetto per lo studioso: attenzione, e vale per molti, al pericolo di fare della letteratura un’occasione per filosofeggiare piuttosto che impiegare la filosofia per rendere più perspicua la lente critico-interpretativa).

Non manca ovviamente un approfondimento su Primo Levi, ospite necessario in ogni discorso sulla testimonianza italiana dell’olocausto. In questo caso l’angolo visuale scelto da Anna Baldini è quello di storia della cultura, quasi a rispondere al quesito: come è diventato Primo Levi, per gli italiani, «insieme filtro a cartina al tornasole della memoria dello sterminio», e poi personaggio pubblico e coscienza morale di un Paese che stenta a riconoscere le sue colpe nascondendo la polvere, posso sembrare irriguardoso, sotto lo zerbino, parecchio stretto, della Resistenza.

Una vicenda che parte da quel 1947 che ha visto la prima pubblicazione di Se questo è un uomo. Erano anni, spiega Baldini, gravati dal peso delle sofferenze vissute durante la guerra, e «le scrivanie delle case editrici si riempivano di storie dolorose, incontrando in generale, con questa accanita concorrenza, poco ascolto». Una vera inflazione di lacrime e dolore per una società che voleva, innanzitutto, girare pagina, ed era quindi sospettosa verso chi gettava sale sulle ferite: delle duemilacinquecento copie stampate di Se questo è un uomo, mille rimasero invendute. Le cose cambiano nei secondi anni Cinquanta, quando il nesso istituito tra deportazione e Resistenza rilancia la memorialistica dell’Olocausto. Nel 1955 Se questo è un uomo viene nuovamente proposto alla Einaudi, che lo aveva rifiutato dieci anni prima, e inizia la fortuna letteraria del libro e del suo autore che, nel corso degli anni Sessanta, «adotta il nesso fascismo/antifascismo come chiave di lettura privilegiata nella sua opera di interlocutore per la collettività», tanto da assumere la funzione di “voce della deportazione” in Italia (ogni Paese ha il suo, o i suoi: in Francia Patrick Modiano, il premio Nobel del 2014, in Ungheria Imre Kértesz, in Slovenia il nostro Boris Pahor, ecc.). L’analisi di Baldini prosegue, e non ci è dato, per ragioni di spazio, di seguirla tutto, ripercorrendo snodi, rallentamenti e accelerazioni di una fortuna che ha conciso con le metamorfosi e le svolte della società e dello spirito pubblico in Italia: esemplare case study che, se perde qualcosa (e come non potrebbe) rispetto all’approfondimento dello specifico ideologico-letterario dell’autore, è capace però di offrire un ritratto articolato, complesso e stimolante di un’Italia “civile” (nei vari significati dell’espressione) che si sforza di guardarsi allo specchio e che, per farlo, ha bisogno di avvalersi della coscienza morale e della forza di verità di qualche grande testimone.

Luigi Reitani contribuisce alla miscellanea con Topografie della Shoah, un testo già pubblicato nel 2009, e che bene si inserisce in questo libro perché approfondisce un tema cruciale, la frequentazione del tema dell’Olocausto in terra tedesca, quel ritorno alla barbarie sotto il segno della croce uncinata che grava come una colpa incancellabile sulla coscienza di sé di un’intera nazione (pesa, sobrio e durissimo, il verso di Celan in Todesfuge: «der Tod ist ein Mester aus Deutschland»). Il discorso, in questo caso, non può che partire da Auschwitz, «luogo tristemente simbolico del fallimento e delle aporie irrisolte dell’intera civiltà occidentale» e insieme, sottolinea Reitani, «lo sfondo obbligato su cui proiettare ogni opera letteraria nata dopo il 1945, misurandone in un certo qual modo lo spessore morale». Ed è Auschwitz, come luogo simbolo dell’abiezione, che ha evocato Adorno, in un giudizio poi in sostanza ritrattato, in cui aveva negato, dopo Auschwitz appunto, ogni legittimo futuro all’espressione poetica, quasi che fare poesia nel mondo contaminato dall’orrore significasse minimizzarlo, o volerlo ignorare. Non ha dipeso probabilmente da ciò l’inclinazione della cultura tedesca a fare della Shoah il perno di elaborazioni estetiche e poetologiche piuttosto che alimento di opere di finzione; resta il fatto che, come ha spiegato Reitani, «la reazione estetica di chi sostanzialmente accettava il discorso di Adorno fu quella di concepire una letteratura ‘documentaria’, in cui a parlare fossero le stesse fonti storiche, e il ruolo dello scrittore fosse semplicemente quello di assemblare e disporre in forma comunicativamente efficace i materiali raccolti. È questo il caso per eccellenza del dramma Die Ermittlung. Oratorium in elf Gesängen (L’istruttoria. Oratorio in dieci canti, 1965) di Peter Weiss». Non sono mancate comunque testimonianze dei sopravvissuti, prima fra tutte weiter leben (vivere ancora, 1992) di Ruth Klüger, e ancorché non copioso, un significativo filone di narrativa di invenzione a firma di Alfred Andersch, Winfried Georg Sebald, Bruno Apitz, Fred Wander, Binjamin Wilkomirski, ecc., scrittori ai quali Reitani dedica degli approfonditi medaglioni critici.

Chiude il libro un saggio che, di inusuale focalizzazione, colpisce per la sua originalità. Ne è autore Romano Vecchiet, un’autorità assoluta nel campo della storia e della tecnica del trasporto ferroviario; competenza che gli giunge utile per ritagliarsi uno spazio particolare, sondando tra storia e narrativa, il tema generalmente trascurato del trasporto dei deportati verso i campi della morte. Spiega Vecchiet: il viaggio (parola ovviamente inadeguata, perché subito avviene, nel sordido inferno dei vagoni-prigione, la degradazione dell’uomo a cosa, a Stück come dicevano gli aguzzini) rappresenta la “perfetta introduzione al clima concentrazionario […] la lucida materializzazione di una sintesi concettuale che aveva nell’umiliazione e nello sterminio dell’avversario il proprio perverso obiettivo di fondo”. La terribile soglia di un percorso verso il nulla di cui resta sempre qualche traccia nei racconti dei deportati, e sulla cui atrocità sovente sorvola l’attenzione dei lettori colpiti da eventi di più appariscente drammaticità. Raccontando la partenza, tredicenne, da quell’angolo della stazione che ora costituisce a Milano parte del Museo della deportazione, Liliana Segre ha ricordato che «il viaggio verso Auschwitz […] è uno dei capitoli più terribili della Shoah»; non un aspetto accessorio dunque dell’esperienza degli innocenti subdolamente condannati a morire, ma sua «parte sostanziale e integrante». Su questo filo Vecchiet intreccia un’ampia serie di considerazioni, che non possiamo purtroppo seguire, individua dei testimoni eccellenti ma estranei al canone più noto (Brovedani per esempio o Cargnelutti, cui è la figlia Raffaella ad aver “prestato” la voce), racconta episodi di solidarietà spontanea nelle stazioni o lungo le linee ferroviarie della deportazione, allargando il campo di analisi anche a recenti esperienze pedagogiche che, riproponendo il viaggio ferroviario verso Auschwitz agli studenti d’Europa, ha varato nuove formule di recupero memoriale, rendendo presente e indelebile per molti giovani ciò che, letto sui libri, sarebbe rimasto solo materia fredda ed inerte. Un bel modo insomma, questo saggio, per chiudere un volume ricco di spunti e sollecitazioni etiche e culturali.

 

 

 

Angela Fabris e

Romano Vecchiet

(a cura di)

Scrivere l’orrore

Letteratura e Shoah

Comune di Udine

Biblioteca civica «V. Joppi»

Udine 2020, p. 89, euro 15,00