Verso Punta Marina

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di Giuseppe O. Longo

 

Nel pomeriggio, quando la brezza di mare rinforzava, ci veniva voglia di andare a Punta Marina, quel promontorio favoloso su cui era adagiato, come un animale antidiluviano, l’immenso edificio bianco della colonia. Le tende e gli ombrelloni garrivano e schioccavano, ma non era questo frastuono che c’inquietava. Nessuno, si diceva, era mai arrivato a Punta Marina: all’impresa si frapponevano ostacoli d’ogni tipo. In primo luogo la distanza, cinque chilometri, dicevano, ma anche quindici o venti, ed era questa vaghezza che ci spaventava, come se Punta Marina e la colonia recedessero in una lontananza lenticolare. In più la brezza ammantava la costa di una caligine brumosa che falsava le prospettive e avvolgeva la colonia in una foschia densa e lattiginosa, per cui dubitavamo addirittura della sua esistenza. Ogni tanto, tuttavia, scacciando tutti i pensieri, decidevamo di metterci in cammino. Procedevamo sulla battigia, infastiditi dal vento, che sollevava nugoli di sabbia come se rovistasse nella nostra inquietudine. Dietro di noi il faro di Porto Corsini sembrava confortarci e spesso ci voltavamo per assicurarci che fosse al suo posto. Ma diventava sempre più piccolo via via che procedevamo, come se ci abbandonasse. Una volta c’imbattemmo in un vecchio che se ne stava seduto sulla spiaggia e subito gli chiedemmo di Punta Marina, ma lui sembrava non saperne niente. Gli indicammo il promontorio, lui scosse la testa e non ci rispose. Mario disse, torniamo indietro e capimmo che in ogni spedizione c’era sempre un Mario che rinunciava all’impresa e persuadeva gli altri a tornare, era per questo che nessuno arrivava mai alla colonia. Ormai Punta Marina ci era entrata nel sangue, e già la mattina, arrivando sulla spiaggia, pensavamo al prossimo tentativo, alla spedizione che finalmente ci avrebbe portato fino a quel promontorio che c’era e non c’era, che si nascondeva dietro qualche incantesimo e che ci ossessionava. Ma era di pomeriggio che la tensione diventava intollerabile e a mano a mano che la spiaggia si svuotava i nostri sguardi frugavano la costa fino a quell’edificio favoloso. Era una colonia per i figli del popolo, no era un ospedale per i feriti di guerra, no era un sanatorio per i tisici, no era uno stabilimento termale per i ricchi… in ogni caso, come ci si arrivava? perché qualcuno doveva pur arrivarci, se non altro c’erano arrivati i muratori che l’avevano costruito, quell’edificio enorme… ammesso che non fosse una fata morgana, una gibigianna illusoria… Un giorno Renato ci informò che Punta Marina era la stazione terminale di tutti i treni d’Europa e che quel palazzo ospitava gli uffici della Compagnia delle Ferrovie Meridionali. Uno arrivava in una stazione ferroviaria d’Europa, pensava che quella fosse magari la stazione terminale, invece c’era ancora Punta Marina: quella era la vera stazione terminale. Altro che colonia, o sanatorio, o caserma: era una stazione ferroviaria. Per un po’ ci mettemmo l’anima in pace, in fondo una stazione ha poco da offrire, e i nostri interessi si diressero altrove. Così passarono gli anni. Tutte le estati tornavamo a Porto Corsini per un paio di mesi e facevamo vita di spiaggia. Ogni tanto guardavamo a sud, verso il promontorio, a volte c’era, a volte non c’era, ma ormai non facevamo più caso a quella strana intermittenza, ci pareva naturale che una stazione ferroviaria dovesse essere così elusiva. Alcuni di noi si sposarono e tornarono con le mogli o i mariti, poi vennero i figli e anche loro facevano la vita di spiaggia. A volte, con i vecchi del gruppo, parlavamo ancora di Punta Marina, ma come si parla di un pianeta lontano, perso nelle lontananze cosmiche, della cui esistenza si può dubitare senza che ciò accresca l’infelicità della vita. Poi smettemmo di parlarne, e poi smettemmo anche di pensare al promontorio. Ogni volta che si mostrava attraverso le brume e la distanza, l’edificio ci pareva più piccolo e opaco, come se fosse stato colpito da un’infermità debilitante, da una vecchiezza senza rimedio.