Incontro con Ottavia Piccolo

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di Adriana Medeot

In un angolo appartato del caffè Tommaseo, immersa nella lettura di un quotidiano, la riconosco: mi avvicino con discrezione, non vorrei essere inopportuna, ma già al primo contatto visivo… è un attimo, le barriere cadono. Ottavia Piccolo è una donna accogliente e schietta, ed è così come appare: non c’è traccia di trucco nei suoi occhi, vivaci, curiosi e penetranti, riserbo alcuno nell’approcciarsi. Corti e grigi i capelli, ostentata con serenità invidiabile la bella faccia su cui il tempo è passato lasciando solo segni leggeri; così, tanto per non dimenticare quanto di bello c’è stato.

Una carriera invidiabile la tua…

Avevo undici anni quando iniziai a recitare. Fui scelta, dopo un provino, per la parte di Helen in Anna dei miracoli, e così iniziai subito a lavorare in teatro, in quello “vero”: Squarzina era il regista, Anna Proclemer la mia partner. Poi tutto fu semplice. Lavorai con Visconti, con Streheler, con Ronconi. Il cinema venne dopo, ma fu importante: Bolognini in particolare, il periodo francese e Scola. La televisione invece non mi ha mai coinvolto completamente, anche se qualcosa ho fatto. Da molti anni mi occupo prevalentemente di teatro, perché ormai faccio solo ciò che mi piace o ha senso per me.

Quasi tutti i tuoi ultimi spettacoli, se non tutti, portano la firma di Stefano Massini; il vostro sodalizio dura ormai da più di dieci anni. Com’è iniziato?

Stefano mi contattò una quindicina d’anni fa per girare un video sulla pena di morte. All’epoca era giovanissimo, ora ha poco più di quarant’anni, l’età di mio figlio; in quell’occasione mi diede alcuni suoi lavori da leggere per avere una mia opinione: non c’erano ruoli femminili pertanto quei testi non mi riguardavano da vicino, ma capii immediatamente la loro potenzialità e li consegnai a Sergio Fantoni, il regista con cui lavoravo all’epoca, affinché li leggesse. Ben presto Stefano Massini ebbe modo di dimostrare il suo grande talento, tanto che oggi, dopo la sua consacrazione al Piccolo di Milano con la Lehman Trilogy , è considerato uno degli autori teatrali più dotati del panorama italiano. Ora è consulente artistico del Piccolo ed ha appena pubblicato un romanzo sull’epopea del capitalismo americano, Qualcosa sui Lehman. Davvero eccezionale, te lo consiglio.

Nel 2006 scrisse per me il personaggio di Elga Firsch, colei che ritenne Dio colpevole delle atrocità inflitte agli Ebrei durante la Shoah, in Processo a Dio; da allora in poi le nostre strade si sono spesso incrociate. Lui possiede la capacità di raccontare fatti di cronaca, eventi contemporanei, come fossero tragedie greche: nei suoi testi tutto è politico, ovvero legato alla necessità di ragionare su un certo evento per comprenderlo, non c’è spazio per la consolazione e la ruffianeria. È questo che ci accomuna, giacché a mia volta ritengo che il teatro non può che essere luogo di verità.

In una recente intervista sostieni che, dopo aver letto un testo di Massini, diventa per te evidente e cogente la necessità di metterlo in scena. Spiegami il perché di questa necessità.

Credo che il teatro sia un servizio pubblico, pertanto è suo compito porre l’accento su eventi e temi che potrebbero facilmente passare in seconda linea, prevaricati dalle urgenze del quotidiano: di cose brutte al mondo ne accadono tante, ma talmente tante che coprono in un attimo quelle precedenti, cosicché non si riesce mai a stare sulla notizia. I telegiornali, i mass media ci propongono ogni giorno filmati di attentati, di stragi efferate, di cadaveri martoriati e fatti a pezzi e di dolori inenarrabili. Ma queste tremende tragedie, se razionalmente ci inquietano e ci riempiono la mente di infiniti perché, emotivamente non ci toccano più, non ci appartengono più. Siamo anestetizzati e non proviamo empatia per i reduci, per i sofferenti, siamo stati vaccinati al dolore, non lo sentiamo più. Compito del teatro è pertanto risvegliare l’obnubilamento attraverso il potente mezzo della parola. E più dell’immagine la parola evoca, emoziona, spinge quindi a riflettere, e poi ad agire.

Nel 2007, poco dopo l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja, Stefano scrisse Donna non rieducabile , un oratorio, un omaggio alla memoria di una grande donna che aveva sacrificato la sua vita per sancire l’importanza della liberta d’opinione nella sua professione. Non vi erano intenti agiografici, Anna era una donna che svolgeva il suo lavoro, faceva ciò che riteneva giusto fare. Non era una fanatica, non una carrierista, aveva la sua vita, la sua famiglia, i suoi figli, ma non poteva tapparsi occhi e orecchie.

Mi fu chiesto di darle voce in un recital a leggio; l’ associazione che mi fece questa richiesta si chiamava Usciamo dal silenzio. Erano gli anni dei girotondi. Silvano Piccardi, il regista che ha saputo dare corpo e voce allo spettacolo, e io ci interrogammo su come mettere in scena il testo: sarebbe stato utile e opportuno far scorrere delle immagini in movimento durante la rappresentazione? Immagini che documentassero ciò che era accaduto e stava accadendo in Cecenia? Piccardi mi disse: non servono le immagini, abbiamo il testo, abbiamo le parole. Aveva ragione.

Massini è eccezionale in questo, sa sdoganarsi da quanto potrebbe essere facile e consolatorio in una narrazione di genere per andare in cerca della forma più adatta a raccontare efficacemente la verità di quanto è accaduto o verosimilmente potrebbe accadere. Sa farlo usando la magia delle parole; del massacro di Beslan, in cui persero la vita 186 bambini, riporta un elenco minuzioso degli oggetti superstiti: un quaderno a righe, un temperamatite. E ancora il suono dei nomi dei bambini uccisi, uno per uno, nome, cognome, età. Un lungo elenco che proprio grazie alla sua asetticità si colora di strazio e arriva al cuore di chi ascolta.

Così in 7 minuti, spettacolo del 2014, diretto da Alessandro Gassman, in cui si parte da un fatto di cronaca avvenuto in Francia per raccontare la vita di undici donne, operaie, di età, di provenienza sociale e di aspettative diverse, che rischiano di perdere il lavoro se non accettano di rinunciare a sette minuti della pausa pranzo. Uno spaccato della società europea di oggi nella quale i lavoratori non hanno più né diritti né tutele, pertanto i bisogni personali prendono il sopravvento sulle battaglie comuni e alla fine ognuno sceglie in base al proprio vantaggio. L’impianto dello spettacolo è tradizionale: undici personaggi in scena che discutono. La versione cinematografica del 2016, per la regia di Michele Placido, non ha avuto il successo aspettato, ma il testo di Massini è perfetto, rigoroso, memorabile. Il cinema è sempre più luogo di evasione, mentre il teatro si sta ritagliando lo spazio della scelta, dell’approfondimento.

Per quanto riguarda Enigma (2009, 2015), sempre di Massini e per la regia di Piccardi nel 2015, la struttura del testo potrebbe sembrare brechtiana. Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, le storie personali dei due protagonisti s’intrecciano, si frantumano, si mischiano, alla ricerca di un senso: una partita a scacchi in cui gli sfidanti mentono, e il pubblico partecipa consapevole.

Cosa ricordi del primo periodo della tua carriera di attrice?

Ricordo che mi sembrava tutto molto normale, un gioco bellissimo che poteva finire da un momento all’altro; contribuirono a creare questo clima sereno i miei genitori che mi ripetevano che avrei potuto smettere in qualsiasi momento e non pensarono mai di avvantaggiarsi economicamente con il mio lavoro, pertanto non avevano aspettative e conseguentemente io non avevo alcuna preoccupazione. Mia madre si occupava dei contratti, ma aveva le idee poco chiare: al tempo guadagnavo 6.500 lire al giorno, che paragonate con lo stipendio mensile di mio padre, che guadagnava 35.000 lire al mese per fare il maresciallo dei carabinieri, sembravano un’enormità. In realtà, durante le tournée, se ne andavano tutte tra vitto e alloggio per me e mia madre, tanto che talvolta mio padre era costretto a intervenire spedendoci un vaglia. Comunque ho continuato finché ho deciso che quello dell’attore sarebbe stato il mio mestiere.

Hai saputo coniugare l’impegno lavorativo che ti portava spesso fuori casa con la famiglia: non è consueto, specialmente per chi lavora nello spettacolo. Il tuo matrimonio dura da più di quarant’anni. Qual è il segreto?

Un certo impegno, certo, ma specialmente la fortuna di incontrare la persona che ti corrisponde, e così è stato per me. Claudio Rossoni, mio marito, a cui sono legata dal 1974, ha scelto di svolgere la sua professione di giornalista restando a Milano, così da potersi occupare di nostro figlio Nicola, in tal modo io ho avuto libertà di movimento. Ce l’abbiamo fatta: ora nostro figlio è diventato grande, fa l’organizzatore di concerti e noi da poco abbiamo scelto di vivere al Lido di Venezia, lontani dal caos delle grandi città. Ci siamo innamorati di questo luogo durante una vacanza, tantissimi anni fa. Io non ho una casa di famiglia a cui fare ritorno: ho vissuto a lungo a Roma, poi a Milano, ma in situazioni precarie o temporanee. Così, non avendo un posto della memoria in cui ritirarci, mio marito e io abbiamo scelto un luogo del cuore: qui, al Lido, abbiamo molti amici, viviamo bene.

Parliamo di donne: spesso interpreti in teatro donne forti, rigorose, oneste, più inclini all’essere che all’apparire. Tu stessa non temi le rughe e i capelli grigi, ben sapendo che altro è ciò che conta davvero. Per chi, come te, ha vissuto in prima persona i forti cambiamenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, come vengono percepite le giovani donne di oggi che, seppur consapevoli del proprio potere e non più vittime, propongono un’immagine femminile appiattita sui modelli canonici del desiderio maschile.

Penso che forse abbiamo sbagliato qualcosa; non abbiamo saputo raccontare nel modo giusto quali sono state le lotte delle donne negli anni Sessanta e Settanta per ottenere la parità di diritti in ambito lavorativo, familiare, sessuale; la libera contraccezione – a esempio – è stata importantissima, così come tutto il resto. Ora tutto sembra scontato, normale. Non è stato così. Non avrei mai pensato che tornassero di moda i tacchi a spillo, credevo che ormai il passo in avanti fosse irreversibile. Un mio amico, gay, negli anni Sessanta mi diceva: se vuoi conquistarlo, baby, indossa i tacchi a spillo, dai! Ma non lo ascoltavo allora come oggi; voglio davvero quell’essere sedotto dai miei tacchi a spillo? È quello l’uomo con cui desidero condividere la mia vita? Cos’è successo? La femminilità, la capacità di sedurre viene esercitata come mezzo di potere, di supremazia sull’altro? Era questo l’obiettivo? Dov’è finita la legittima richiesta di parità? Sono incredula e stupefatta. Sarebbe necessario che qualcuno raccontasse l’intero processo, dagli anni Cinquanta a oggi. Se mi trovo tra le mani un testo così lo metto in scena, lo faccio. Sarebbe bello, anzi sarebbe necessario.

Sono d’accordo, sarebbe necessario.