Scenari post elettorali

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Almeno un risultato è conseguito grazie alle elezioni politiche dello scorso 4 marzo: è finita la campagna elettorale, una delle più irriguardose per l’intelligenza di quanti venivano sollecitati al voto da parte dei candidati. Probabilmente bisogna andare all’indietro fino agli anni Quaranta, quando si cercava di irretire gli elettori con pacchi di pasta o scarpe nuove, quando si parlava di avversari politici che mangiavano i bambini, si faceva intervenire Dio nel dibattito politico, in assoluto disprezzo non soltanto del senso del ridicolo, ma soprattutto delle capacità intellettuali della generalità dei cittadini. Ora, inoltrati nel terzo millennio, si tenta di carpire voti per mezzo di promesse elettorali, in larga parte irrealizzabili, dagli innalzamenti a un minimo decoroso delle pensioni, ai redditi di cittadinanza, all’abolizione di indigeste riforme previdenziali, alla cancellazione di varie tasse e balzelli, alla riduzione generalizzata delle imposte dirette, tacendo ovviamente riguardo all’aumento di quelle indirette, all’abolizione del canone televisivo, delle tasse sull’automobile, di quelle per accedere agli studi universitari, e ancora sostanziosi redditi aggiuntivi per chi ha figli a carico, pensione alle mamme, in quanto tali, a prescindere, come direbbe Totò (“Vota Antonio, vota Antonio!”).

Agli abitanti del Friuli-Venezia Giulia è spettato, in vista dell’elezione di un rinnovato Consiglio regionale, il dubbio privilegio di un supplemento di tale fantasmagoria di frottole, anche se per la verità la campagna elettorale è risultata un po’ meno pirotecnica.

Il sistema elettorale regionale ha consentito di vedere il giorno stesso dello scrutino un nuovo presidente della Giunta installarsi nel palazzo di Piazza Unità, forte di un mandato inequivocabile da parte degli elettori, di quella metà scarsa, almeno, che è andata a votare.

Quanto richiama ancora l’attenzione dei cittadini, tuttavia, sono le vicende romane, l’incredibile dialogo tra sordi che blocca da oltre due mesi l’insediamento di un nuovo Governo.

Ciò che nessuno tra i primattori della politica sembra prendere in considerazione è il fatto che si è ritenuto opportuno confezionare un sistema elettorale che, allontanandosi dai precedenti schemi che ipotizzavano – sbagliando – la presenza di due sole forze politiche alternative l’una all’altra, si è invece orientato verso un sistema di tipo proporzionale. Per definizione, e tanto più in presenza di tre blocchi elettorali sostanzialmente analoghi per consistenza numerica, un sistema di tale genere implica necessariamente la disponibilità dei singoli partiti ad aggregarsi per dar vita a un esecutivo il più possibile stabile, dotato di una maggioranza parlamentare che è ovviamente il prerequisito per poter governare il Paese.

Nella cosiddetta prima repubblica, quando il proporzionalismo era la legge, le forze politiche erano consapevoli della necessità di addivenire a un accordo per dar vita ai governi, anzi tale esigenza era al centro del “mestiere” del politico. Ma i partiti, allora, erano qualcosa di profondamente diverso da quelli di oggi: anch’essi avevano dei leader, in molti casi anche carismatici, ma conservavano comunque l’assetto di organismi collettivi, godevano di una forte presenza sul territorio e, soprattutto, erano dotati di una cultura consolidata cui attingere, in alcuni, come nel caso del Partito Repubblicano o di quello Liberale, tale cultura aveva le sue radici addirittura nel Risorgimento, in altri, quelli dei socialisti e dei comunisti, nella nascita del movimento operaio di fine Ottocento, nel caso dei cattolici nella dottrina sociale della Chiesa.

Oggi, nell’epoca del pragmatismo, quando il termine “ideologia” è sostanzialmente una parolaccia bisognosa di opportuni eufemismi, la cultura politica è un elemento opzionale di scarsa importanza e di nessun interesse pratico. Basta disporre di capi partito telegenici e abili nell’affabulazione.

I risultati li vediamo ogni giorno.