Gli innamoramenti di Javier Marias

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Pubblicato nel 2011, tradotto in Italia l’anno successivo, il romanzo ha per io narrante una donna

di Luisella Pacco

 

Tornare dalla vacanze, si sa, è difficile. Ci si aggrappa a tutto per conservare un po’ della dolce aria straniera che abbiamo respirato. Così, anche per me.

A metà settembre, appena rientrata da un piacevole soggiorno a Valencia, non voglio lasciar andare lo spirito spagnoleggiante che mi avvolge. Al contempo, mi rendo conto di essere un po’ in ritardo con la consegna dell’articolo per Il Ponte rosso. Trovo soluzione all’una e all’altra esigenza, decidendo di parlarvi di un autore che – in tanti anni di recensioni – curiosamente non avevo mai trattato (ma che avevo amorevolmente in serbo): Javier Marías.

Nato a Madrid nel 1951, autore di romanzi, raccolte di racconti e saggistica (I territori del lupo, Traversare l’orizzonte, L’uomo sentimentale, Tutte le anime, Un cuore così bianco, Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, Il tuo volto domani, e tanti altri…), Marias è tradotto in tutto il mondo e ha vinto i più importanti premi letterari, spagnoli e non solo.

Molti dei suoi libri non ho letto. Alcuni li ho letti senza restarne particolarmente colpita. Ma ce n’è uno che mi è piaciuto moltissimo, che mi ha inquietata per i contenuti e ineluttabilmente conquistata per lo stile: Gli innamoramenti.

Pubblicato nel 2011, tradotto in Italia l’anno successivo, il romanzo ha per io narrante una donna. E credetemi, la sensibilità e l’abilità con cui Marías si cala nella psicologia femminile sono eccezionali.

L’ultima volta che vidi Miguel Desvern o Deverne fu anche l’ultima volta che lo vide la moglie, Luisa, il che continua ad apparire strano e forse ingiusto, dal momento che lei era questo, sua moglie, e io ero invece una sconosciuta e non avevo mai scambiato con lui una sola parola. Non sapevo neppure il suo nome, lo seppi soltanto quando ormai era tardi, quando comparve la sua foto sul giornale […]

Questo è l’incipit del romanzo e questa è la voce di María. María Dolz, che va ogni giorno allo stesso caffè frequentato da una coppia all’apparenza perfetta. Miguel Deverne, appunto, e sua moglie Luisa.

La sintonia, i gesti di tenerezza e di spontaneo rispetto, il dialogo fitto, il coinvolgimento sincero, tutto in loro indica un amore vero e profondo. In loro, mai uno di quei gesti sdolcinati o artefatti, che tante coppie fanno solo per “far vedere” che stanno bene insieme, No, quei due insieme ci stavano bene davvero. Tra di loro vi era dimestichezza, e soprattutto convinzione.

 

María li guarda con benevolenza. Lei, che nella sua vita sentimentale non conosce una simile fortuna, potrebbe invidiarli con l’animosità che talvolta a tutti sfugge… E invece no, li ammira e auguravo loro tutto il bene del mondo, come ai personaggi di un romanzo o di un film dei quali si prendono le parti fin dall’inizio, ben sapendo che qualcosa di brutto accadrà loro, che qualcosa andrà storto a un certo punto, altrimenti non ci sarebbe romanzo né film.

 

E infatti qualcosa di tremendo accade: Miguel è sul giornale perché è morto, ucciso, brutalmente accoltellato.

Qual è la verità intorno a questa morte? Anzi, quale è la verità intorno a ogni cosa? Ne esiste una, dalla V maiuscola, solida e sicura come uno scoglio per chi stia naufragando? O invece ne esiste una piccola, minuscola, mutevole, trasformista, ipocrita, fatta di mille rivoli multipli, di intepretazioni tutte buone?

Quanta verità e quanta menzogna ci sono nelle parole scambiate in una conversazione amichevole, in un discorso amoroso, e persino nel dialogo muto con se stessi?

Un giorno il caso avvicina María a Luisa che, cortese, la invita in casa, e le parla e le confida le sfumature e le onde dello strazio allucinante che sta vivendo. Per un po’ sono quasi amiche.

È quell’unico giorno a casa di Luisa che María vede per la prima volta Javier Díaz-Varela, amico di famiglia.

 

Era virile, disteso e di bell’aspetto, quel Javier Díaz-Varela. Sebbene rasato con cura, gli si indovinava la barba, un’ombra leggermente bluastra, soprattutto all’ altezza del mento energico, come da eroe dei fumetti […] Le fattezze erano delicate, con occhi allungati dall’espressione miope o sognante, ciglia abbastanza lunghe e una bocca carnosa e soda molto ben disegnata, tanto che le sue labbra sembravano quelle di una donna trapiantate in una faccia da uomo, era molto difficile non soffermarsi su di esse, intendo dire distoglierne lo sguardo, erano come una calamita, tanto quando parlavano come quando rimanevano in silenzio. Facevano venire la voglia di baciargliele, o di toccargliele, di seguirne con il dito le linee così ben tracciate […]

 

Lo osserva bene, María… Lo rivede per caso qualche tempo dopo al Museo Nacional de Ciencias Naturales. Cerca di impressionarlo con una battuta brillante, non le riesce, ci rimane male, ma lui si ricorda esattamente i suoi nome e cognome e lei se ne sente lusingata… Sono iniziate le schermaglie, la rete è tesa.

 

Nasca una relazione squilibrata, di quello squilibrio classico di cui tanto si parla, tanto da renderlo argomento banale da rivista letta dalla parrucchiera (se non fosse che non esiste – mai – dolore banale, e questo tipo di relazione di dolore ne dà moltissimo): quella tra una donna che vorrebbe di più e un uomo che, oltre gli incontri fugaci, non si concede.

Una relazione che Marías è bravissimo a descrivere. Chi ne ha vissuta una, e ne porta addosso un ricordo vecchio ma ancora utile come strumento di analisi delle cose del mondo, riconosce la perfezione millimetrica di quelle scene.

Vi sono uomini che sin dall’inizio mettono tutto bene in chiaro senza che glielo chieda nessuno: “T’avverto che non ci sarà più di quello che c’è, fra te e me, e se aspiri ad altro tanto vale smettere immediatamente”; oppure: “Non sei l’unica e non pretendere di esserlo, se cerchi l’esclusività non è questo il posto”: oppure, com’è stato con Diaz-Varela: “Sono innamorato di un’altra che non è ancora pronta a contraccambiarmi. Ma ci arriverà, devo essere costante e paziente. Non c’è niente di male se tu mi distrai nell’ attesa, se lo desideri, ma tieni ben presente che questo è quello che noi rappresentiamo l’uno per 1’altro: una compagnia provvisoria e distrazione e sesso, al massimo amicizia e affetto limitato”.

Non è che Diaz-Varela mi abbia mai detto queste parole, in realtà non ve n’è bisogno, perché quello è il significato inequivocabile che traspare dai nostri incontri. Tuttavia gli uomini che mettono sull’avviso si smentiscono nei fatti a volte, con il passare del tempo, e in più noi donne in molti casi tendiamo a essere ottimiste e in fondo presuntuose, in maniera più profonda rispetto agli uomini, che sul terreno amoroso lo sono soltanto transitoriamente, dimenticano di continuare a esserlo: pensiamo che tanto cambieranno atteggiamento o convinzioni, che scopriranno a poco a poco che senza di noi non possono andare avanti, che noi costituiremo l’eccezione nelle loro vite […]; che saremo le prescelte se abbiamo la pazienza di restar loro accanto quasi senza lamenti e insistenze. Quando non provochiamo passioni immediate, crediamo che la lealtà e la presenza finiranno per essere premiate e per avere maggiore possibilità di durata e maggior forza di qualunque altro impeto o capriccio.

 

Díaz-Varela è innamorato di Luisa, è lei il suo impeto. María lo sa, lo sente. Ma la consapevolezza non le è di aiuto: lei resta comunque in una situazione senza sbocchi e senza possibilità, in una trappola opaca e sporca in cui spera (quale misera speranza!) di riuscire a far parte delle sue abitudini, sia pure sporadiche.

Che tristissimo, penoso autoinganno…

Come vorrei dirvi di più, ma non posso. Perché, capite, questo è un romanzo che – oltre che di verità e di vari tipi d’amore – parla di morte (di una morte violenta), il che lo rende un noir, magnificamente costruito, di cui non devo svelarvi le ombre.