La fotografia? Non ci capisco nulla

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Cartier-Bresson a Palazzo Grassi di Venezia

di Michele De Luca

 

Forse nessun maestro del clic, come Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 1908L’Isle-sur-la-Sorgue, 2004), ha saputo con le immagini, ma anche con i suoi scritti chiari ed altamente poetici, renderci partecipi della sua continua riflessione sul linguaggio del medium e sul suo stesso lavoro, che dal punto di vista più strettamente professionale doveva trovare e vivere il momento certamente più significativo e coinvolgente nella fondazione (insieme a Capa, Seymour e Rodger) della mitica agenzia Magnum. «Fotografare – sono sue parole – è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l’immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale».

Fedele sempre ad una visione veloce, alla ricerca dell’immagine “rubata”, Henri Cartier-Bresson, uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi, teorizzò la poetica del “momento decisivo”, consistente nel catturare un’immagine unica ed irripetibile, capace di sintetizzare un’intera situazione. «Per significare il mondo – egli ha scritto – bisogna sentirsi coinvolto in ciò che si inquadra nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, sensibilità, senso geometrico. è attraverso un’economia di mezzi e soprattutto l’abnegazione di sé che si raggiunge la semplicità espressiva».

“Henri Cartier-Bresson. Le grand jeu”, questo il titolo della mostra allestita a Venezia, nei grandi spazi di Palazzo Grassi, che il risultato di un progetto inedito basato sulla Master Collection, una selezione di scatti operata dallo stesso fotografo nel 1973, che qui viene sottoposta allo sguardo di François Pinault, Annie Leibovitz, Javier Cercas, Wim Wenders e Sylvie Aubenas, offrendo così al visitatore cinque punti di vista sulla sua immane produzione. Sfilano sotto i nostri occhi, anche attraverso inquadrature molto note che sono ormai patrimonio di intere generazioni e che sono capolavori di sintesi visiva, luoghi, personaggi, eventi tra i più significativi del nostro tempo.; immagini che molto spesso, per la loro pregnanza, hanno finito per assumere valore ed efficacia di “simbolo” e di “mito”. E che sono state realizzate da chi, non si capisce se per modestia o per vezzo, suole dire di sé: «Sono semplicemente un tipo nervoso a cui piace la pittura. Per quanto riguarda la fotografia, non ci capisco nulla».

Come scrive Matthieu Humery, curatore generale della mostra, “Il “gioco” del titolo, oltre a richiamare il tema della casualità, caro ai surrealisti, fa riferimento innanzitutto alla selezione compiuta dall’artista. Ricco di sfumature di significato, il termine evoca divertimento e svago, ma può rinviare anche all’insieme di regole, “le regole del gioco” a cui è necessario assoggettarsi. Tuttavia, in francese la parola “jeu” si avvicina a “je”, che significa “io”. Il “Grand Je” viene celebrato in primo luogo attraverso l’omaggio all’opera di un unico artista e, simultaneamente, attraverso l’“io” di ogni curatore che emerge, in controluce, nella scelta delle immagini”. I cinque curatori ci raccontano in totale libertà la loro storia, le loro sensazioni e il ruolo che queste immagini possono aver rappresentato per il loro lavoro e la loro vita. L’idea di affidare la mostra alla varietà degli sguardi di cinque curatori, che hanno orizzonti molto diversi fra loro, ci è sembrata un’eccellente idea per risvegliare la curiosità, proprio come la completa libertà che ciascuno di loro ha avuto nello scegliere una cinquantina d’immagini, alcune delle quali necessariamente si ritroveranno anche nelle selezioni degli altri. Questo ha comportato un notevole impegno nel concepire l’allestimento e creare uno spazio identificabile per ciascuno

degli sguardi dei curatori. Si tratta di una sfida nuova e inedita che ha per protagonista l’opera del fotografo celebrato come l’ ‘occhio del secolo’.

Ha scritto sempre Humery nel catalogo coedito da Marsilio e dalla Fondazione Pinault: «Attraverso il prisma composto dalle singole visioni proposte dalla mostra, scopriamo le suggestioni che hanno nutrito l’ispirazione del fotografo. Tutte queste sensibilità permettono allo spettatore di avvicinarsi alle foto di Henri Cartier-Bresson da un’angolazione nuova». Questo progetto, segmentato e analizzato a diversi livelli, rivela una sorta di una sconfinata sinfonia del “Grande gioco”: ogni mostra, infatti, consiste nel creare dispositivi visivi che s’inseriscono in un ambiente preciso per rivelare le opere; attraverso il loro racconto, i cinque curatori creano un legame tra le opere e aprono nuove prospettive. E, in aggiunta, ci svelano in tutta libertà la loro storia, i loro sentimenti e il posto che quelle immagini hanno preso nel loro lavoro e nella loro vita».

Dice il grande regista Wim Wenders in una sua suggestiva considerazione su Cartier-Bresson e sull’essenza del suo personale impatto con le sue immagini, alla base anche della selezione da lui effettuata. «Adesso capisco molto meglio che cosa mi ha colpito! Non solo vedo che tutte quelle persone oggi si mostrano a me (e anche a voi) come se fossimo in contatto diretto, come se il nostro rapporto non fosse passato attraverso l’obiettivo della Leica di Henri Cartier-Bresson. Naturalmente

è così, ma il mistero è che, qualsiasi legame ci sia stato fra lui e loro, non interferisce con il nostro modo di vederli oggi. Ci sono una franchezza e un’immediatezza che potremmo riconoscere nella nostra abitudine contemporanea di scattare con gli smartphone, e in tutte le foto che facciamo senza ritenerle fotografie vere e proprie, selfie compresi. Non è facile da identificare precisamente, ma in quei ritratti di Henri Cartier-Bresson c’è qualcosa che sfida in toto il periodo in cui sono stati realizzati».

 

Henry Cartier-Bresson

Vigneron, Cramont

France, 1960

© Fondation Henri Cartier-Bresson

Magnum Photos

 

Henry Cartier-Bresson

Dimanche sur les bords

de la Seine

France, 1938

© Fondation Henri Cartier-Bresson

Magnum Photos