Donne, scrittura e giardini

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Per Emily Dickinson una vita tra casa e giardino. E poesia.

Per molte altre scrittrici, da Virginia Wolf a Susanna Tamaro, giardino e paesaggio sono complementari alla scrittura

di Gabriella Ziani

 

Al centro della stanza che contiene il suo letto e una ripristinata tappezzeria a rose c’è su un manichino il fantasma di lei, una copia dell’abito bianco che preferibilmente indossava nella claustrale reclusione che si era scelta. L’originale è visibile nel museo della città di Amherst, Massachusetts, la patria di Emily Dickinson, poetessa fiabesca che non volle mai pubblicare perché – scrisse – «pubblicare è la vendita all’asta/della mente umana», e la cui fama fu tutta postuma, creata con focosa passione dall’amica e vicina di casa – nonché amante del fratello – Mabel Loomis Todd che, in accordo-disaccordo con la sorella-vestale Lavinia Dickinson, riuscì a far pubblicare i primi volumi di versi, scatenando di seguito una pazzesca battaglia legale coi parenti che cominciarono a contendersi le ormai preziose spoglie letterarie (la vicenda è ricostruita con dettaglio da Lyndall Gordon in Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson, Fazi 2012).

Anche oggi è tutto prezioso attorno all’eterea Dickinson, che tanto eterea divenne soprattutto nell’immaginario, per l’abile azione di marketing che si scatenò dopo la sua morte, il 15 maggio 1886, a 56 anni, per una malattia renale, rendendola una creatura mistica – e infatti è oggetto di puro culto. Certamente la sua scelta di recludersi nella casa di famiglia, la famosa “Homestead”, fu un atto di volontà consapevole, attorno ai quarant’anni scrisse in una lettera al suo mentore Thomas Wentworth Higginson che poi ebbe un ruolo importante nella storia delle pubblicazioni: «Non mi spingo oltre il giardino di mio padre, non vado a casa di nessuno, non vado in nessun’altra città». Ma più che di nevrosi si trattava per lei di circoscrivere e appartenere: la terra, i fiori, gli alberi, il giardino d’inverno che il padre aveva fatto costruire, la scrittura che dalle piante, dal variare delle stagioni traeva con grande frequenza alimento, erano un mondo sufficiente, «uno scampolo di paradiso», e «quando arriverà il mio turno – scrisse in una lettera in anni funestati da sequenze di lutti familiari e da assidue cure delle tombe – voglio un ranuncolo». Fu sepolta con l’abito bianco, ornato di violette, un’orchidea rosa, un eliotropio…

Oggi quel florido giardino in cui la poetessa metteva le mani oltre che l’anima, assieme alla casa ristrutturata filologicamente, all’adiacente villa del fratello Austin altrettanto botanicamente rigogliosa (gli “Evergreens”, un nome che è già un programma) fanno parte di un unico complesso museale, e ancora giovani volontari archeologi scavano e grattano tutt’attorno per trovare se possibile nuove reliquie, nuovi segni, nuove schegge che consentano di ricreare il mondo di Emily esattamente com’era. E com’era? Era fatto di fiori, coltivati e selvatici, banali e rari, di erbe e di alberi e di siepi, di frutta e di bulbi, di semi e radici, di pozzi, innaffiatoi e smisurata adorazione del mondo vegetale in tutta la sua enorme ricchezza, apparente umiltà, e bellezza.

Meglio non ce lo potrebbe raccontare Marta McDowell, che scoprì Amherst per caso negli anni ‘90 e da allora si è dedicata ai giardini e alla botanica – una vera folgorazione sulla proverbiale via di Damasco –, nel libro Emily Dickinson e i suoi giardini, l’universo verde della poetessa, splendidamente proposto in Italia dalla casa editrice L’ippocampo cui si deve un’altrettanto preziosa edizione sul giardino di Virginia Woolf – citazione questa che apre un vasto e affascinante tragitto sulle orme delle scrittrici-giardiniere.

Corredata di foto d’alta qualità, e di pagine appropriatamente stampate su diversa carta per la riproduzione di disegni floreali d’epoca, l’opera è un tragitto biografico nell’universo verde e fiorito della poetessa, con un’appendice che dimostra che cosa arrivi a produrre il maniacale attaccamento al proprio idolo: si trovano censiti ben 347 tra fiori, erbe, piante, alberi, senza mettere in conto le varietà, che la poetessa ha citato in versi e in lettere (se ne hanno di lei oltre mille), con il rimando filologico a ogni poesia e a ogni missiva. In più è osservata al microscopio un’altra passione della “biancovestita”, e cioè l’erbario, 66 pagine per 400 esemplari dissecati, di cui si vedono riprodotte, con una certa emozione bisogna dire, alcune pagine originali.

Ma se l’hortus conclusus di un giardino, l’occuparsi amorevolmente dei fiori, più generosi e grati degli umani, ha davvero i connotati di una autoimposta prigionia, o può sembrare una moda, un modesto ripiego per romantiche fanciulle dell’800 con un’educazione scolastica solo abbozzata (così fu quella di Emily stessa, che però aveva studiato botanica oltre che materie umanistiche), si sa a posteriori che per lei questa fu una scelta non solo esistenziale in senso pieno, e una religione in senso laico, ma anche in parte la sua personale poetica: il croco, la mela, l’ape, la rosa, il mughetto e tutta la stupefacente varietà del prato, del giardino e del bosco sono la sostanza e il senso del vivere e del morire, messaggeri di più alte cose, allegre o sconfortanti, fonte di speranza, ammonimento o delusione. Nel suo verseggiare spezzato, nel singulto di frasi ritmate con lo stacco caratteristico del trattino c’è una semplicità innocente e scabra, una continua meraviglia, come se da un geranio, da una felce, da giacinti, narcisi, gigli, oleandri, lillà, garofani, papaveri, margherite, digitali, orchidee, iris e peonie, da ogni stelo anche secco emanasse una vibrante, colorata e praticamente infinita sequenza di significati, così come è con grata ammirazione che Emily osserva e ama la fauna che abita il suo Eden: «Al pettirosso mira la mia musica -/poiché dov’egli cresce cresco anch’io -/Se fossi nata dove nasce il cuculo,/ su di lui giurerei».

Ma attraversando i luoghi e i tempi si trovano tante altre e singolari vicende che legano in modo indissolubile la scrittura femminile a un giardino, al mettere le mani in terra con fatica e competenza, oltre che nell’inchiostro. Il più celebre caso si trova a Sissinghurst, nella casa-castello di Vita Sackville–West (1892-1962), moglie del diplomatico Harold Nicolson, amica-amante di Virginia Woolf e non da ultimo viaggiatrice, romanziera e poetessa. A partire dagli anni Trenta creò nel verdeggiante Kent inglese un giardino favoloso, con “stanze” di colore a tema, che – entrato nel National Trust nel 1967 – è visitato oggi da 200 mila persone all’anno. Vita, mascolina e matrona, tenne una rubrica di botanica sull’Observer dal 1946 fino alla morte (i testi sono raccolti in Il libro illustrato del giardino, Elliott 2013, ma la bibliografia naturalmente è molto ampia).

Nondimeno la fragile e geniale sua amica Virginia ebbe, grazie soprattutto alle cure del marito Leonard Woolf, la propria oasi incantevolmente architettata, verde e fiorita (con annesso frutteto) attorno al cottage “Monk’s House” nel paesino di Rodmell, nel Sussex, dove con la vista aperta su prato, glicini, gigli e cinerarie scrisse per ventidue anni i suoi capolavori, compreso l’Orlando in cui raffigura in cangianti epoche e forme di uomo e donna l’amata Vita. Sempre alle edizioni L’ippocampo dobbiamo l’illustratissimo libro Il giardino di Virginia Woolf di Caroline Zoob  (2014) che è una gioia per gli occhi e la mente. Casa e giardino sono oggi nazionalizzati, e vengono dati in affitto solo a inquilini devoti alla scrittrice, che s’impegnano a curare filologicamente l’ampio parco, a mantenere intatta l’abitazione come se Virginia ancora abitasse quelle stanze, e ad assicurare le periodiche visite del pubblico in cerca delle intramontabili alchimie letterarie e artistiche del gruppo di Bloomsbury.

Ma anche l’americana Edith Wharton (1862-1937), l’autrice di Ethan Frome e L’età dell’innocenza, grande viaggiatrice in Europa, fu “giardiniera” e paesaggista, a lei si deve l’ancora importante Ville italiane e loro giardini (Passigli, ultima ristampa 2021), mentre la sua arte del verde trovò importante espressione nell’allestimento del sontuoso parco di “The Mount”, la sua residenza a Lenox, nel Massachusetts, proprio la terra di Emily stessa.

Nomi, esempi e storie sarebbero tanti, per la gran parte radicati nel mondo anglosassone che, in mancanza di antiche delizie come quelle italiane (ma anche francesi), ha fatto dell’architettura del paesaggio e del giardinaggio una passione sedimentata, a volte casalinga e amorevole, a volte grandiosa, dispendiosa e quasi missionaria. Un’idea di sintesi con molte biografie la offre Women Gardeners di Paola Fanucci (Ets 2016), mentre qui ci fermeremo dalle nostre parti, ricordando i giardini e gli scritti botanici di una scrittrice di grande competenza come Pia Pera (1956-2016), che dopo i romanzi si dedicò alla sua passione prevalente, pubblicando tra l’altro Il giardino che vorrei (Electa 2006; Ponte alle grazie 2015), Contro il giardino dalla parte delle piante (Ponte alle grazie 2007), Al giardino non l’ho ancora detto (idem, 2016) e curando una rubrica sulla rivista Gardenia.

E oggi? La storia continua attraverso il nuovo profilo della triestina Susanna Tamaro, una Emily Dickinson dei nostri tempi, ma in prosa, che vive ritirata nel suo casale in Umbria coltivando fiori e frutti e allevando api, e che ha di recente pubblicato Invisibile meraviglia, piccole lezioni sulla natura (Solferino, 2021, pp. 192, euro 16,00). Milioni di copie vendute con i suoi libri precedenti, ma poi dove l’ha portata il cuore? In giardino, a riscoprire, rassodare e raccomandare a tutti le nostre profumate fondamenta, un salvavita che sa di passato ma assicura il futuro, messo a rischio dai disastri climatici. Come scrisse la poetessa biancovestita: «Solo la nostra gioia chiedono- /i diletti del suolo / tutta la loro presenza concedono /per un sorriso avaro».

Non sarà poi un caso se Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin  (E/O, 2019) è un long-seller internazionale pur parlando di fiori in cimitero, una versione del giardinaggio prima di tutto consolatoria, benché il libro abbia una seconda faccia turbolenta e “nera”. Anche i fiori muoiono, come le poetesse, ma i libri rendono eterni la loro storia, la loro opera e, appunto, i loro giardini.

 

 

Marta McDowell

Emily Dickinson e i suoi giardini

L’universo verde della poetessa

L’ippocampo, Milano, 2021

Traduzione di Claudia Valeria Letizia

  1. 270, euro 19,90