La tela di Penelope di Orson Welles

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In un saggio la storia del suo film più mitico, incompiuto e incompibile, enigmatico e labirintico: The Other Side of the Wind

di Francesco Carbone

 

«Gli artisti che ho amato di più sono artisti popolari. Io vorrei esserlo, ma non lo sono. Assomiglio di più a Céline,

che scrive libri su libri che nessuno legge mai.»

(Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles)

 

 

Cosa è un’artista? Nessuna delle risposte di Orson Welles è scontata: «il pericolo maggiore per un artista è di trovarsi in una posizione comoda: è suo dovere mettersi nel punto di scomodità massima» (O. Welles, Itìs all true, Minimun fax 2005); «essere alla moda è segno certo che si è di second’ordine. C’è una corrente principale della nostra cultura, uno spirito del tempo a cui apparteniamo, certo; alla fine, però, non saremo giudicati in base al grado della nostra partecipazione, ma in base alla qualità della nostra risposta individuale» (O. Welles, P. Bogdanovich, Io, Orson Welles). Che è un bellissimo modo per riassumere il rapporto tra arte e morale.

L’occasione per tornare a ragionare su Welles è l’utilissimo saggio di Massimiliano Studer, Orson Welles e la New Hollywood (Mimesis 2021) che ricostruisce la storia del suo film più mitico, incompiuto e incompibile, enigmatico e labirintico: The Other Side of the Wind. Girato tra il 1970 e il 1975, è uno dei film più geniali mai fatti. Inclassificabile, euforicamente sperimentale, comico – e quindi impuro – come la Commedia di Dante, e perfettamente tragico per l’esito a cui ci porta.

Confronti possono essere pensati solo con altri capolavori inqualificabili: l’Ulisse e il Finnegans Wake di Joyce, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, Parigi, capitale del XIX secolo di Walter Benjamin… Opere mondo, apocalittiche (apocalisse vuol dire rivelazione), testamentarie, che ci lasciano in uno stupore turbato.

Quanto ci è rimasto di The Other Side of the Wind è un «caos inenarrabile» di documenti, in cui con grande perizia si è mosso Studer, e soprattutto le 96 ore di riprese girate da Welles in cinque anni e mezzo, malgrado difficoltà di ogni genere che sempre Studer racconta efficacemente.

 

La trama è semplice: il giorno del suo settantesimo compleanno, il regista Jake Hannaford – interpretato da un meraviglioso John Huston – presenta in una villa, a un folto gruppo di amici e di addetti, l’anteprima del suo ultimo film The Other Side of the Wind. È seguito in ogni suo movimento da uno stuolo di videomaker. Per alcuni incidenti la proiezione è più volte interrotta; in quei tempi morti – che sono la gran parte del film – tutti parlano, spettegolano, mangiano e bevono – soprattutto bevono – commentano più o meno cinicamente ogni cosa. Parlano quasi solo di cinema. Paiono i dannati tenuti in una piccola torre Babele sul punto di svanire: la villa sembra una bolgia dantesca per cineasti, critici, produttori, condannati a non sapere di essere già in un ecolalico Limbo infernale.

Tra questa piccola folla, il vecchio regista si muove disincantato, avulso e carismatico allo stesso tempo. Il film che presenta è il contrario della cornice chiacchierona e caotica in cui si svolge la proiezione: ne vediamo schegge mute o quasi, lente, con scene di sesso stranianti, ipnotiche, come fossero vissute da sonnambuli. Fanno volutamente pensare ad Antonioni, regista che Welles detestava. Al mattino, dopo questa notte in bianco, il vecchio regista parte solo con la sua Porsche (come James Dean), e come James Dean muore in un incidente stradale.

Welles ha chiamato a recitare forse appena la parodia di loro stessi alcuni dei nuovi autori del cinema non solo americano: Dennis Hopper, Henry Jaglom, Paul Mazursky, Claude Chaborl e soprattutto Peter Bogdanovich, l’amico di Welles, in quel momento all’apice del successo per aver diretto L’ultimo spettacolo, Ma papà ti manda sola? e Paper Moon.

Questa Babele, che è facile vedere come un’epitome della New Hollywood, è dunque tenuta dentro la cornice classicissima che per Aristotele caratterizza la tragedia greca: unità di luogo (la villa), di tempo (il giorno del compleanno del regista), e di azione (la proiezione del suo ultimo film). Allo stesso tempo, come il nostro Decameron e Le mille e una notte, il film ha una struttura a cornice: è un film dentro il quale si vede un altro film.

The Other Side of the Wind appare a Studer «una sorta di omaggio/parodia della generazione di Easy Rider»: ma forse va più vicino al vero quando lo definisce «una critica caustica alla New Hollywood, al suo stile, ai suoi personaggi mitici, ai suoi contenuti e ai suoi inevitabili cliché»: dunque un film contro la Nuova Hollywood, che aveva ormai soppiantato il sistema degli Studios di quella vecchia Hollywood di cui proprio John Huston era stato uno dei registi più prestigiosi. Huston qui è un alter ego di Welles non meno di quanto lo sia Mastroianni in 8 ½ di Fellini.

Uno dei paradossi è che, se Welles era potuto tornare a Hollywood, era stato proprio grazie al supporto della nuova generazione di registi che di Welles avevano il mito. Ma il film che Welles aveva in mente sarebbe stato ben altro, e ben oltre, di quanto si era visto in Easy Rider (Dennis Hopper, 1969) o nel bellissimo Ultimo spettacolo (Peter Bogdanovich, 1971): molto più una parodia anche crudele, spietata e disincantata che un omaggio.

Mentre la New Hollywood, pur nei suoi esiti eccelsi, rientrò presto nei canoni del classico cinema americano (Spielberg, Scorsese, De Palma, Coppola, ecc.), Welles rimase tutta la vita un autore sperimentale. E di questo era consapevole: «non mi interessa il lavoro artistico, capite, la posterità, la fama, ma solo il piacere della sperimentazione in sé stessa. È l’unico ambito in cui posso sentire di essere onesto e sincero» (O. Welles, Itìs all true).

Questa era stata la sua necessità da subito: già Quarto potere (1941) fu l’occasione di una serie ancora oggi stupefacente di innovazioni (vedi di R. L. Carringer Come Welles ha realizzato Quarto potere, Il Castoro 2000). Quarto potere non ebbe il successo commerciale che ci si aspettava. Già al secondo film – il meraviglioso L’orgoglio degli Amberson (1942) – Welles venne licenziato a montaggio non finito: il produttore (come per Quarto potere l’RKO) tagliò 43 minuti e chiamò un altro regista per un finale posticcio e imbarazzante: malgrado questo, il disastro economico non fu evitato.

 

Hannah Arendt aveva scritto del «destino degli inclassificabili» pensando al suo amico Walter Benjamin, altro genio del XX secolo prediletto dalla sfortuna. Molto di quello che la Arendt ci dice di Benjamin può valere per la vita di Welles: «potremmo senza difficoltà raccontarla come una serie di mucchi di cocci ed è indubbio che anch’egli l’abbia vista così» (H. Arendt, W. Benjamin, L’angelo della storia, Giuntina 2017).

Un abnorme «mucchio di cocci» è quanto ci resta di The Other Side of the Wind. Studer ci racconta che il grezzo che ci è rimasto – da cui Welles pensava di ricavare un film attorno alle due ore – è costituito da 96 ore girate in quasi tutti i formati possibili: 35, 16 e 8 mm, e con telecamere. In tutto sono 1038 bobine. A differenza dei registi della Hollywood classica (John Ford, Howard Hawks, lo stesso John Huston), per Welles era solo nel montaggio che il film si realizzava: in un work in progress che non poteva che definirsi via via.

In montaggio, aveva un metodo tutto suo, lentissimo, i cui risultati potevano essere rimessi in discussione in qualunque momento: selezionava tutto quanto delle riprese pensava avrebbe potuto servirgli: «per ogni scena faccio una sorgente di tutte le cose che mi potrebbero andare bene, perché magari anche in un ciak sbagliato può esserci un pezzetto che mi piace […]; ci vuole un’eternità» (Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles).

Nel caso di The Other Side of the Wind, già solo per la predisposizione di questa «rough assembly», la squadra di montatori si ritrovò, scrive Studer, «sovrastata dall’enorme mole di bobine». Solo per una scena di pochi minuti – l’orgia in un bagno pubblico – Welles aveva realizzato 500 inquadrature. Per montarla, ci mise sei mesi. È il Welles che si è sempre saputo: «potrei lavorare un’eternità al montaggio di un film. Per quanto mi riguarda, la singola scena deve suonarmi come un motivo musicale, e l’esecuzione è determinata dal modo in cui è montata» (O. Welles, Itìs all true).

A che pro tanta lentezza? C’è una scena in All That Jazz di Bob Fosse (1980), in cui si vede il regista alla moviola che rimonta per l’ennesima volta la stessa scena. Ha vicino il produttore che si lamenta per questo spreco di tempo e quindi di denaro. Il regista non si scompone. Alla fine, lo lascia solo a guardare. Il produttore non può fare a meno di dire che «così è meglio».

Per un’infinità di impercettibili meglio, Orson Welles ha vissuto. I film incompiuti – per i più rocamboleschi motivi – di Welles sono dodici.

Cosa vuol dire per un artista concludere? Welles appartiene a quel genere di artisti di cui ha scritto tanto Paul Valéry nei suoi Quaderni: quelli per cui la conclusione dell’opera è un’illazione, una delle possibilità infinite aperte da quello che Welles ha chiamato sperimentare. E l’istante in cui si sente che l’opera è finita è solo il momento estremo e ingannevole della stanchezza dell’artista. Welles evidentemente si stancava molto raramente.

Tutto questo rende definitivamente «impossibile sapere come sarebbe stato» il film di Welles, se avesse avuto la possibilità di concluderlo.

 

Dopo una selva di problemi legali, finalmente nel 2017 – Welles era morto nel 1985 – Netflix ha potuto comprare i diritti di The Other Side of the Wind. Ha finanziato il montaggio con cinque milioni di dollari. Il lavoro è stato affidato a Bob Murawski, ottimo montatore, vincitore, tra l’altro dell’Oscar nel 2010. Nel 2018 il film è stato presentato al festival di Venezia. Da allora, è disponibile su Netflix, con un documentario che ne racconta la storia.

Quello che così possiamo vedere è un buon lavoro? Studer lo definisce un «compromesso». Certo essersi messi al posto di Welles è stata un’operazione congetturale, un arbitrio necessario. Studer individua tutti i punti più problematici: a cominciare dal fatto che Welles era arrivato a montare i primi 42 minuti, che Murawski ha ritenuto di dover cambiare. Il perché non lo sappiamo.

Netflix si è anche affidata a un’intelligenza artificiale per ritrovare in tutte le 96 ore disponibili «ogni fotogramma che fosse coerente con le immagini presenti nel montato di Welles», ma certo neppure un’intelligentissima intelligenza artificiale è Orson Welles. Magari, quando Netflix riterrà giunto il momento di rendere pubbliche quelle 96 ore, professionisti e dilettanti si proveranno a darci montaggi alternativi: varianti di un’opera che non esisterà mai per come il suo autore la stava concependo. Piuttosto come una nebulosa quantistica che ogni volta si riconfigura diversamente.

Occorrerà comunque, come voleva Joyce per il Finnegans, uno spettatore insonne che soffre di un’insonnia ideale che tutto gli fa ricordare, e che, arrivato alla fine dell’opera, subito ricomincia a leggerla.  Come Joyce, e Dante, Welles crea opere che devono inventare il loro fruitore.

Intanto, pensiamo che vale per Welles quanto scrisse Jacques Rivière per Proust: «è morto della stessa imperizia che gli ha permesso di scrivere la sua opera. È morto per inesperienza del mondo […], perché non conosceva le regole più elementari di come funzionano le cose» (J. Rivière, Alcuni progressi nello studio del cuore umano. Proust e Freud, Medusa 2017). Solo che Orson Welles quelle regole le conosceva fin troppo bene, ma non gli interessava rispettarle in nessun caso.

 

 

John Huston, Orson Welles

e Peter Bogdanovich