Sulla fabbrica di Andy Warhol

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di Francesco Carbone

 

 

Sono certo che guardandomi allo specchio non vedrò nulla. La gente dice sempre che sono uno specchio, e se uno specchio si guarda allo specchio che cosa può trovarci?

(Andy Warhol)

 

La più celebrata opera di Andy Warhol, Shot Sage Blue Marilyn, è stata acquistata all’asta di Christie’s a Manhattan per 195 milioni di dollari. Nessun quadro del XX secolo è stato pagato tanto. Per questo sono bastati meno di quattro minuti: Alfred Hitchcock avrebbe espresso un giusto disappunto per così poca suspense. La reazione degli esperti, per quel che si è letto sui giornali, è stata entusiasta: il sorriso ricolorato della Monroe di Warhol richiama quello della Gioconda (La Stampa, 10 maggio), Achille Bonito Oliva ha detto che Shot Sage Blue Marilyn è stato pagato troppo poco avendo fatto acquistare «due icone immortali al prezzo di uno» (sempre La Stampa). I soli termini di paragone adeguati sono stati Leonardo, Botticelli, Raffaello: più in alto, non c’è nulla. Cose che si leggevano già sul sito di Christie’s, che lo presentava come «the modern Mona Lisa», e «one of the greatest paintings of all time».

Il record di Warhol è stato un evento largamente annunciato: tutto il mondo del commercio d’arte aspettava il momento messianico in cui Warhol avrebbe battuto Les Femmes d’Alger (Version O) di Picasso.

Come su molte altre cose, Warhol era stato profetico: «ho letto che Picasso aveva fatto quattromila capolavori nella sua vita e ho pensato: “Gesù, potrei farli in un giorno”». Già su questo si potrebbe ragionare, partendo da un presupposto meno semplice di quanto possa sembrare: prendere Warhol, nelle cose che ha fatto e ha detto alla lettera.

 

A rigore, quello di Warhol non è un ritratto di Marilyn Monroe: è il rifacimento serigrafico (un procedimento tecnico molto usato nelle réclames) di una foto pubblicitaria del film Niagara (1953). Shot Sage Blue Marilyn è il “ritratto di una foto”. Warhol lo realizzò nel 1964: Marilyn Monroe era morta due anni prima. Warhol da quella foto ricavò cinque serigrafie, ognuna con una serie di colori diversa. Sulla foto in bianco e nero, Warhol applicò colori piatti e saturi.

La colorazione appare persino violenta: lo sfumarsi dell’attaccatura dei capelli dalla fronte è coperto da un giallo omogeneo e uniforme, lo stesso le labbra con il rosso che sborda oltre i contorni, come l’applicazione di un timbro troppo grande. Tecnicamente, ha l’approssimazione di tante copertine di letteratura pulp. Lo sfondo è occupato tutto da un blu salvia (il sage blue del titolo) omogeneo. La terza dimensione è per quanto possibile abolita. Già su questo si potrebbe ragionare.

Warhol è stato uno degli artisti più famosi del XX secolo. Sappiamo che la stessa operazione – ricolorare immagini popolari – la fece con la scatola di un detersivo, il barattolo di una zuppa, Mao Tze Tung, una sedia elettrica, Elisabeth Taylor, Gianni Agnelli, sé stesso, ecc. Potenzialmente, dunque, con qualunque cosa che fosse visibile e – conditio sine qua non – famosa, riconoscibile: come si dice oggi forse con una certa spericolatezza, iconica.

Avere il proprio ritratto «con la concretezza sgargiante di una locandina cinematografica», proprio come questa Marilyn celeberrima, fu lo status symbol per cui clienti facoltosi si misero in «fila davanti alla porta della Factory» di Warhol.

Factory vuol dire fabbrica. Nella fabbrica, coi suoi operai, Warhol, ricolorandoli, elevava merci familiari e persone famose allo «status di icone vuote, ripetendole all’infinito senza alcun commento»; chiaro che così si esponesse al rischio «di finire a realizzare serigrafie del nulla». Leggiamo questo in un saggio che non ha alcuna intenzione di essere critico nei suoi confronti: il Leo Castelli di Alan Jones (Castelvecchi 2007). Leo Castelli è stato il gallerista italiano (Trieste 1907 – New York 1999) che a New York ha avuto un ruolo fondamentale sia nel successo dell’informale che della pop art.

La straordinaria consolazione che ci dà la Monroe di Warhol è che non abbiamo niente da capire: esiste come un’immagine riconosciuta, ed è già solo per questo ornamento riproducibile all’infinito. La riproducibilità è l’essenza di questa idea di bellezza: la riproducibilità è la prova della sua potenza. Il prezzo che per questo risultato viene allegramente pagato è la riduzione a zero di ogni possibile senso, o meglio: qui si celebra la stessa liberazione da ogni possibile senso. Interrogare la Marilyn di Warhol sarebbe come interrogare un gelato, un frullatore, un detersivo… Proprio perché non significa nulla, non ci interroga, non ci sfida ma appunto ci consola. Questa è un’arte deliberatamente fatta per non inquietare nessuno. Non ha nulla di ambiguo, non è equivocabile: non ha segreti. Splende della sua «assenza di un contenuto esistenziale o di un qualsiasi dramma umano» (J. Clair, Critica della modernità, Umberto Allemandi & C. 2011). La possiamo ritrovare come ornamento di una tazza, una borsa, un foulard, una maglietta: ovunque.

Il primo che ragionò sulla conquista dell’ubiquità dell’opera d’arte contemporanea fu Paul Valéry nel 1931 (La conquete de l’ubiquité, in Pièce sur l’art). Quel saggio breve e profetico offrì a Walter Benjamin il punto di partenza delle celebri riflessioni su L’opera d’arte nell’età della riproducibilità tecnica (Einaudi 2014), in cui Benjamin, ragionando sulla fotografia, scrive che «il valore dell’esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore culturale».

L’opera d’arte, persa l’aura della sua irripetibilità, resa ubiqua per le sue riproduzioni, non ha più un luogo suo. Ma questa sua nuova natura apolide, senza contesto, senza storia, è la condizione del suo successo planetario. Dal punto di vista economico può apparire un paradosso: con Warhol vediamo tutti che più l’opera s’inflaziona più si apprezza. Proprio come la pubblicità, che ne è il modello dichiarato.

Rispetto alla pubblicità, che ha dato a Warhol tutto il linguaggio che gli era necessario, la Marilyn non pubblicizza niente se non Warhol stesso, dunque non ha scadenza. Warhol ama ciò che è, ma non nel mondo: nel mercato. L’amore di Warhol per il mercato è sempre stato dichiarato, esplicito, entusiasta. Diceva che «l’idea dell’America è meravigliosa perché più una cosa è uguale e più e americana», e che «comprare è molto più americano di pensare e io sono molto americano».

 

Proprio di Marilyn Monroe è stato scritto che il suo segreto consisteva nell’essere assieme «il peccato e il perdono». Il peccato è già un pensiero, e in Shot Sage Blue Marilyn non c’è nulla da pensare, e dunque nessun desiderio. Strano se nessuno si è accorto di questa radicale desessualizzazione della Monroe da parte di Warhol. Si può desiderare la Venere di Velasquez, l’Odalisca bionda di Fragonard, l’Olympia di Manet, o la Monroe di quasi tutti i suoi film; ma il desiderio chiama una storia, si svolge nel tempo, mentre qui il tempo non c’è più. Viene da dire che è per questo che ha vinto: «vittoria senza storia, prodezza senza conseguenze» (J. Baudrillard, Il sogno della merce, Lupetti & Co. 2011).

A Jean Baudrillard dobbiamo la definizione giusta di questo tipo di opere: non un’icona, almeno non un’icona nel senso serio della parola, come un’immagine soglia verso un oltre nel quale possiamo azzardare il nostro sguardo solo attraverso questa finestra di enigmatica bellezza (vedi il fondamentale Le porte regali di Pavel Florenskij, Adelphi 2021), «ma un simulacro, che è il contrario di un’icona: un’apparenza che non nasconde niente» (J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Pgreco 2008, e molti altri saggi).

Il punto se si vuole affascinante è che, dicendo queste cose, non si compie nessun atto di demistificazione e tanto meno di denuncia: sono cose che Warhol aveva già sempre detto di sé stesso: «Essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante»: «ignoro dove l’artificiale finisca e cominci il reale»; «credo che tutti i quadri debbano avere le stesse dimensioni e gli stessi colori, in modo che siano intercambiabili»; «io ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business»; «contare i soldi è il genere di lavoro che mi piace. È semplice e ripetitivo» (Andy Warhol, La cosa più bella di Firenze è McDonald’s, Stampa Alternativa 1994, da questo libricino sono prese anche tutte le sue citazioni seguenti). Si potrebbe continuare.

Anche su tutto questo si potrebbe ragionare a lungo: restando nell’ambito della pop art, Jaspers Johns (le sue bandiere sporche degli Stati Uniti, la sua scopa di saggina…) mostra un’America segnata dal tempo che scorre. Se Warhol è Canaletto che ci dà una Venezia in apparenza incapace di corruzione, Jaspers Johns è Francesco Guardi, che nelle stesse vedute ci lascia invece la sensazione struggente del tempo che scorre liquido e inevitabile: qui c’è la mortalità che Warhol esorcizza: «si dovrebbe rimanere bambini più a lungo, ora che si vive più a lungo». Jaspers Johns aveva detto subito «o lui o me», e il mondo ha scelto Warhol, o almeno lo ha scelto il mercato. Warhol è ormai un sistema, Johns solo un artista.

Il tempo è il nemico della pubblicità: nella pubblicità nessuno muore, nessuno ha una storia, nessuno ricorda nulla. Come nel Truman Show (P. Weir, 1998), esiste solo il momento, che sarà sempre un momento perfetto.

Oscar Wilde, con Il ritratto di Dorian Gray (1890), ci dà forse una chiave: la Monroe di Warhol è quel ritratto (di noi?) senza rughe, sorridente, sospeso in sé stesso, con uno sguardo che non guarda nessuno (il contrario della Monna Lisa), ricalcato come si potrebbe fare con dei pennarelli sgargianti, consola con la sua esposta insignificanza. Pare davvero anticipare un destino, che si potrebbe chiamare il destino americano del mondo: oggi diremmo Instagram, Tik Tok, Facebook… La patina di colori che vela la foto di Niagara è così diversa dai filtri con cui oggi ogni utente dei social ritocca il suo viso?

Come il ritratto del romanzo di Wilde, la Monroe di Warhol rimuove intanto la vera Marilyn (l’altro lato dell’America?) morta suicida, o forse addirittura uccisa, dipendente da psicofarmaci, figlia di una schizofrenica, passata per undici affidi familiari, stuprata, e anche qui si potrebbe dolentissimamente continuare. Non avrebbe saputo cosa farne Andy Warhol di tutto questo: «Io vado sempre dietro alla cosa più facile, perché se è la più facile, allora è anche la migliore».

Facciamo allora un confronto: nell’anno di Shot Sage blue, il 1962, Francis Bacon continuava la sua serie di ritratti mostruosi, forse ancora – e sempre – insostenibili… Se Warhol è il ritratto di Dorian Gray all’inizio, quelli di Bacon sono esempi della sua trasformazione dopo tutto il tempo in cui il protagonista si è corrotto in nefandezze che non occorre in fondo neppure sapere? Bacon è il rimosso di Warhol, e dunque la verità? Verità è una di quelle parole filosofiche che nel mondo di Warhol non esistono più.

Si può infine dire che con quei 195 milioni di dollari si compie una storia? Che è la storia dell’irrompere trionfante dell’arte americana in Europa e in tutto il mondo a partire dalla Biennale di Venezia del 1964 (U. Nespolo, Per non morire d’arte, Einaudi 2021). Warhol, e le sue Marilyn sono l’America? E dunque, sempre di più, noi? Ma noi non siamo ancora del tutto così, almeno non tutti.

Intanto la factory di Warhol, luogo non artigianale ma industriale di produzione in serie di opere per «l’ingente macchina» del grande mercato della grande arte contemporanea (A. Del Lago e S. Giordano, Mercanti d’aura, Il Mulino 2006), è diventata uno standard diffuso: Damien Hirst e Jeff Koons su tutti. E tutto cominciò «sotto la tirannia di un vampiro guardone, spinto da un arrivismo e un’avidità divoranti» (M. Fumaroli, Parigi-New York e ritorno, Adelphi 2011). Su questo, per chi volesse approfondire c’è di Victor Bockris, Andy Warhol, Leonardo, 1990. Nella Factory, uno dei più celebri desideri di Warhol, «voglio essere una macchina», era stato realizzato: e le macchine erano quelli che per pochi dollari lavoravano per lui.

 

Andy Warhol

Marylin/Niagara