Libero Bigiaretti e Umberto Saba

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la recensione alle Scorciatorie di Saba firmata da Bigiaretti sull’Avanti il 16 aprile 1946

di Fulvio Senardi

 

C’è fra le poesie di Saba, una lirica, una sola – fa parte di Mediterranee – che riporta in un verso il nome di uno scrittore amico, ma senza lusinga, anzi, con un filo di ironica malinconia (“Bigiaretti e compagni hanno veduto / poco o nulla di te mia Musa […]”), temperata dall’affettuoso correttivo del distico finale: “Sono buoni ragazzi. T’hanno amata / anche diminuita, anche accecata”. Qualcuno se la sarebbe presa, non Libero Bigiaretti, un “ragazzo” che alla fine della guerra, quando più continuo diventa il suo rapporto con Saba, conta già quaranta primavere. Entrato di prepotenza nel mondo letterario con un romanzo, Esterina, del 1942 (uno di quegli inizi fulminanti non rari nella letteratura italiana, vedi Moravia e Gli indifferenti o, se parva licet, Aldo Nove e Woobinda) Bigiaretti è, dall’ottobre 1946, redattore di Mercurio, la rivista di vita effimera nata, per merito di Alba de Céspedes, nell’anno della libertà, e in cui Saba ripropone qualche lirica di Trieste e una donna, quindi collaboratore, insieme al poeta triestino, di Comunità, la rivista di Adriano Olivetti (che Bigiaretti seguirà a Ivrea, per assumere, a partire dal 1957, la responsabilità dell’Ufficio Stampa della Olivetti), sulle cui pagine Saba pubblicherà Tre poesie a Telemaco e lo scrittore marchigiano Un segreto di famiglia. Ma è, soprattutto, uno dei “dioscuri” (insieme a Giacomo Debenedetti) che fanno da “guardia spalla” a un Saba teneramente maldestro nei giorni della consegna del Premio Viareggio, nell’estate del 1946 (titolava L’Unità: Il premio Viareggio assegnato ai compagni U. Saba e S. Micheli); un riconoscimento che anche Bigiaretti ebbe la ventura di ricevere nel 1968, grazie alla Controfigura romanzo purtroppo (come mentono i premi letterari!) non fra i suoi migliori.

Di quei giorni egli ci lascia un delizioso ricordo in un ritrattino letterario pubblicato negli anni Sessanta sul mensile Successo, e che ora si può rileggere insieme ad altri medaglioni dello scrittore marchigiano grazie ad Aracne (Libero Bigiaretti, Profili al tratto, 2015), un libro non facile da reperire nelle biblioteche cittadine (Trieste non ha questa fortuna), e di cui certo sarà gradito ai lettori triestini assaporare qualche passo. L’attacco, lo si è già capito, riguarda l’inserimento del cognome in un verso, un artificio che, per qualche cuore permaloso, sarebbe risultato imbarazzante. Così invece Bigiaretti: «quei versi non mi sono mai dispiaciuti», confessa, «essi hanno il merito ai miei occhi, anzi il potere di prolungare il ricordo di me, o il suono, o almeno il suono del mio nome, al di là dello spazio temporale di mia spettanza […]».” Ma perché, si chiede poi Bigiaretti, «io e non altri sprovveduti, in testa (alla gogna) alla Poesia alla mia Musa? Un po’ doveva andargli bene, nel verso, il suono, la scansione ritmica del quadrisillabo ‘Bigiaretti’, un po’ perché in quel periodo gli ero vicino»; e sono i giorni appunto della gloriosa tappa in Versilia (ma Saba si lamenterà, lo sappiamo, di aver dovuto condividere il premio, astro geloso che non tollerava altre luci vicino a sé). Seguono, nel cartiglio sabiano consegnatoci da Bigiaretti, altri sapidi episodi: la visita del poeta all’amico ricoverato nel dicembre 1950 in una clinica a Monte Mario, occasione nella quale Saba ebbe occasione di sfoggiare le sue competenze psicanalitiche a proposito delle malattie psico-somatiche: «sosteneva», ricorda Bigiaretti, «che il mio medico era un somaro, non capiva il mio male. Insinuava che, forse, il mio medico era uno ‘junghiano’, un seguace di Jung, che era per Saba, freudiano di stretta osservanza, ciò che per Gramsci era il termine ‘loriano’, cioè uno sciocco»; l’ultimo «guizzo argentato dell’anima», per dire con Gadda, illumina una giornata triestina. Bigiaretti vi è giunto per una conferenza sull’importanza sociale della letteratura da tenere nella sede di un sindacato, di fronte a un pubblico operaio («forse nel ’50, forse nel ‘49», specifica); un tema che è sufficiente per farci capire la scarsa sensibilità dello scrittore verso l’idea crociana dell’intuizione lirica e la tendenziale denegazione idealistica della storicità dell’arte. Una presa di distanze, di radice e riflesso politico-ideologico, che gli garantiva l’incondizionata comprensione della poesia di Saba, sul cui valore, al tempo, non tutti concordavano: «l’operazione critica di distinguere e separare nella poesia [di Saba] i momenti più alti e quelli di apparente caduta, il ricordo autobiografico e l’astrazione lirica, appare, più che inutile, insensata». Come Saba del resto anche Bigiaretti aveva firmato il Manifesto dell’alleanza per la difesa della cultura, di appoggio al Fronte popolare, come Saba aveva visto con inquietudine la scivolata del PCI nello zdanovismo all’indomani del 18 aprile; ma, diversamente da lui, aveva vissuto senza troppe impuntature, umoralità, fissazioni e ossessioni, mantenendo anzi ferma la barra a sinistra, gli anni in cui il resistenziale “vento del Nord” era andato ristagnando nella bonaccia democristiana (per tutto ciò, dalla parte di Saba, utile Nel mondo di Umberto Saba: “le scorciatoie di un poeta saggio”, una miscellanea curata dall’Istituto giuliano di storia cultura e documentazione). Bigiaretti dunque, per ritornare al tema, arriva a Trieste, e chi vede spuntare in fondo alla sala? Proprio lui, Umberto Saba. Dopo un attacco intimidito, l’oratore riesce a dare il meglio di sé, concludendo anzi con una poesia del Canzoniere, e invitando quindi il “Maestro” al tavolo per farlo recitare; al che Saba, con quell’irripetibile modo di fare tra ipocondria e narcisismo, ritrosia e prepotenza declama, strappando al pubblico l’ovazione, Quest’anno la partenza delle rondini. C’è una coda, che Bigiaretti racconta con un sorriso: ospite, all’indomani, a casa Saba, lo scrittore ascolta con fare distratto avventure e disavventure dei canarini del poeta. Che nota la sua indifferenza diventando immediatamente freddo e scontroso. Quando Bigiaretti, qualche tempo dopo, ha occasione di leggere quella poesia: «Ma tu pensi: i poeti sono matti / Guardi appena; lo trovi stupidino. / Ti piace più Togliatti», con l’“incongruo” paragone tra gli alati e l’illustre personaggio politico, non può impedirsi di pensare che anche quella volta Saba, ma senza scriverlo, avesse in mente lui, «Bigiaretti e compagni» (ancorché, è ancora il nostro testimone a parlare, «Saba non mi ave[sse] mai detto che ero proprio io lo sciocco insensibile ai canarini»).

Opportuno chiudere a questo punto, e i lettori ne saranno felici, riportando una pagina di Bigiaretti, questa sì introvabile. La critica alle Scorciatoie che pubblicò sull’Avanti il 16 aprile 1946. E che contiene, come stupirsene?, una acuminata punta polemica, per interposta persona (Saba), rivolta contro Croce.

«È stato pubblicato di recente dall’editore Einaudi un folto volume (Il canzoniere) che racchiude tutta l’opera poetica di Umberto Saba: quarantacinque anni di lavoro, cinquecento poesie. Un’opera che non da oggi soltanto fa del poeta triestino un maestro; e un maestro, diciamo, cui può ricorrere non solo l’‘eletta schiera’ degli iniziati. Saba è poeta dolcissimo e limpido (per lui non a sproposito si è parlato di classicismo), poeta degli affetti e delle sofferenze umane, della vita degli umili; poeta della sua Trieste epperò italianissimo, che s’è posto, in questi ultimi anni, decisamente a fianco del popolo ‘tra gente che si pigia, in lunga fila alle botteghe vuote’; che ha unito in suo verso ‘falce, martello e la stella d’Italia’; che si duole, in una delle ultime poesie: ‘tutto mi portò via il fascista abbietto – ed il tedesco lurco’. Ora, nella mondadoriana collezione dello Specchio è uscito un volumetto di prose Scorciatoie e raccontini. Sono le Scorciatoie brevi notazioni, appunti e osservazioni intorno a piccoli a grandi argomenti che colpiscono e coinvolgono lo spirito del poeta: mezzo per giungere più rapidamente possibile, come vuole il titolo, alla verità intima delle cose. Ma niente che somigli al diario di un letterato, cioè a una raccolta di immagini e metafore di pura marca e di puro esercizio letterario. Le occasioni di fermare sulla carta un pensiero nascono per Saba dalla sua capacità di mescolarsi alla vita di tutti, derivando da quella quotidianità che abbassa talvolta il tono della sua lirica, e hanno una estensione tanto lata quanto quella che può offrire l’agitata vita moderna a un uomo di sensi vigili e di viva umanità e cultura. Politica e storia, cronaca e arte muovono la fantasia di Saba, ravvivata molto spesso da un’arguzia ora bonaria, ora pungente (e naturalmente non sempre felice e azzeccata). Apologhi, battute di dialogo colte sul vivo o integrate dal poeta, riflessioni, comparazioni, ritrattini talvolta disegnati amorosamente seppure sinteticamente, talvolta argutamente allusivi. Come nel rapido, trasparente apologo che s’intitola Ultimo Croce (Benedetto) e che offriamo in saggio la lettore: ‘In una casa dove uno s’impicca, altri si ammazzano fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono faticosamente di fame, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio, si apre una porta e si vede una vecchia signora che suona – molto bene – una spinetta’. Una dozzina di ‘raccontini‘ chiudono il libro. Brevi anch’essi, ma senza quel gusto intenso di ‘scorciare’ in un giro rapido di parole una verità. Raccontini (un tempo si sarebbero chiamati più esattamente bozzetti) che nascono da una esperienza di uomo stanco e nostalgico per ravvivare una figura, rievocare un tempo o un ambiente. E sempre racchiudono una moralità, seppure non la investono con la speditezza delle scorciatoie e s’illuminano di un umorismo meno fine».