Fotografia come viaggio interiore

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Ampia retrospettiva di Ugo Mulas all’Isola di San Giorgio a Venezia

di Michele De Luca

 

Tra la sua esistenza e la fotografia non c’è alcuna discontinuità, anzi c’è una perfetta simbiosi. Scriveva Germano Celant nel 1993 in uno splendido volume (Ugo Mulas, Federico Motta Editore): «Il perimetro del fotogramma era il luogo dei suoi piaceri e dolori di vita, che una volta in laboratorio, erano sottoposti ad un lavacro purificatore per presentarli levigati e limpidi. Per lui la fotografia non era uno strumento asettico e contemplativo di registrazione, piuttosto era un trapianto del flusso vitale del suo organismo e della sua energia. Rifiutava quindi di staccare la mano sia dalla macchina fotografica che dalla carta sensibile. Voleva che le immagini trasudassero intensità e passione, non si sostituissero mai al soggetto, ma lo irradiassero di forza, lo esaltassero al massimo della sua carica poetica e mitica… Sono un altrove  offerto a tutti, luogo in cui si esprimono elementi umani e linguistici, che si chiamano ancora teatro e paesaggio, azione e pittura, ma sono semplicemente immagini».

Tra le figure più importanti della fotografia internazionale del secondo dopoguerra, Ugo Mulas (Pozzolengo, Brescia, 1928 – Milano 1973) fin da giovanissimo fu affascinato da quello che sarebbe poi stato da lui intrapreso e praticato, il ruolo della fotografia: quello, cioè, di offrire una testimonianza critica della società, che seppe subito, da eccellente protagonista, realizzare i suoi primi reportage tra il 1953 e il 1954 nelle periferie urbane e nell’ambiente artistico e culturale dei primi anni ’50, nel periodo “mitico”, denso di speranze e fermenti, che si coagularono tra i tavolini del Bar Giamaica. Qui Mulas si impose con la sua potente personalità creativa nei più diversi ambiti della fotografia, dalla moda alla pubblicità, collaborando a numerose riviste come Settimo Giorno, Rivista Pirelli, Domus, Vogue. In questo periodo, inoltre, il fotografo intreccia una stimolante collaborazione con Giorgio Strehler, grazie alla quale pubblicherà le fotocronache L’opera da tre soldi (1961) e Schweyck nella seconda guerra mondiale (1962).

Negli anni a seguire particolare e fondamentale, in quanto ne divenne territorio fino ad allora inesplorato, fu la sua attenzione e il suo avido interesse per il mondo dell’arte e per la produzione artistica,che si concretizzò alla grande nel fotografare le edizioni della Biennale di Venezia dal 1954 al 1972; mentre, nel 1962 documenta la indimenticabile mostra “Sculture nella città” a Spoleto, dove si lega soprattutto agli scultori americani David Smith e Alexander Calder. Di questo periodo è anche la serie dedicata alla raccolta Ossi di Seppia di Eugenio Montale (1962-1965). Nel 1964, in occasione della “Biennale” sulla Pop Art americana, venne introdotto da Leo Castelli nel panorama artistico americano dove potè ritrarre importanti pittori al lavoro.

La collaborazione con gli americani continuerà poi nel 1965 e successivamente nel 1967, anno nel quale Mulas presenta la sua analisi del lavoro con gli artisti pubblicando il celebre volume New York: arte e persone. Fondamentale, tra le altre, anche la collaborazione con Marcel Duchamp, di cui ha scritto: «Le fotografie di Duchamp vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visivamente l’atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso». Costante ed instancabile è stato il suo impegno nel voler penetrare e rendere con le sue immagini il rapporto più intimo tra l’artista e la sua opera, nel momento magico della creazione, oppure in un momento di rapporto diretto, contemplativo. Nelle sue foto Mulas ha sempre cercato di identificare e rilevare la sua attitudine, cogliendo nell’approccio dell’autore alla sua arte l’essenza stessa di quell’arte.

Quella di Mulas non è soltanto “documentazione” dell’ambiente artistico, ma un’indagine in profondità sull’opera d’arte nel momento del suo farsi e sul contesto sociologico in cui gli artisti si muovono. Come lui stesso ebbe a dire – per esempio –  a proposito delle foto scattate a Calder e alle sue sculture, la sua intenzione era quella di rendere in pieno «il senso di questi oggetti, l’amore con il quale Calder stesso li fa, la sua perizia, la sua incredibile attività manuale, e poi il suo modo così particolare di lavorare». In una grande mostra curata da Denis Curti, (“Le Stanze della Fotografia”, catalogo Marsilio), all’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, all’interno della Fondazione Giorgio Cini, la vicenda fotografica di Mulas viene fatta rivivere con un’ampia retrospettiva che presenta per la prima volta una selezione di immagini vintage mai esposte prima d’ora.

 

Gianni Berengo Gardin

Ugo Mulas

Campo Urbano,

Como, 1969

© Gianni Berengo Gardin