Tina Modotti, “pasionaria” tra storia e mito

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La grande fotografa friulana in mostra al Palazzo Bisaccioni di Jesi (Ancona)

di Michele De Luca

 

Ti ho visto appena. Ma fu abbastanza / per ricordarti e capire ciò che eri: / l’umano fervore delle tue fotografie / volti malinconici del Messico, paesaggi, / quell’amore negli occhi che fissavano ogni cosa”. Così il poeta spagnolo Rafael Alberti ricordava Tina Modotti all’indomani della sua immatura scomparsa, avvenuta a Città del Messico nel 1942 (era nata a Udine nel 1896). E con queste parole il fotografo americano Edward Weston aveva descritto nel suo diario il senso di mistero emanato dal viso di Tina, fotografa e “pasionaria”, che con lui visse dal 1923 al 1929 a Città del Messico, condividendo ricerca fotografica e passione sociale e politica: “Il volto di Tina è nobile, maestoso, esaltante. Il volto di una donna che ha sofferto, che ha conosciuto morte e delusione, che si è venduta ai ricchi e donata ai poveri … la cui maturità deriva dall’esperienza amara e dolce allo stesso tempo di chi ha vissuto intensamente, profondamente e senza paura”.

A breve saranno ottant’anni dalla sua morte, avvenuta misteriosamente su un taxi nella capitale messicana: una vita breve ma molto intensa e movimentata, che forse più della sua interessantissima produzione fotografica continua ad essere oggetto di attenzione da parte di scrupolosi biografi e fantasiosi romanzieri, tanto da aver rivestito il suo personaggio con i panni del “mito”. Eppure, in un suo appunto, Tina scriveva: “Mi considero una fotografa e niente altro e se le mie fotografie si differenziano da quelle generalmente prodotte è che io non cerco di fare dell’arte, ma delle buone fotografie, senza trucco e senza manipolazione”. Pioniera del reportage sociale, puntò il suo obiettivo sugli strati più disagiati della popolazione messicana; le sue immagini, a volte crude, ma a volte tenerissime, sono tangibile testimonianza della forte solidarietà che la legò ai poveri e all’infanzia; non fu insensibile al fascino della pittura muralista, stringendo amicizia con i suoi esponenti di spicco, come Diego Rivera, il quale in un articolo volle con grande anticipo obiettare a chi avrebbe continuato ad affermare (anche in tempi recenti) che le foto della Friulana a volte erano indistinguibili da quelle di Weston, che l’opera della Modotti è “probabilmente più astratta, più eterea, e forse anche più intellettuale di quella di Weston”.

La Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi rende omaggio a questa importante fotografa dal 12 aprile al 1 settembre con la mostra “Tina Modotti fotografa e rivoluzionaria”, allestita al Palazzo Bisaccioni, curata da Reinhard Schultz e ideata da Francesca Macera: sessanta fotografie provenienti dalla Galerie Bilderwel di Berlino, per scoprire la grande abilità di fotografa e le passioni che ne condizionarono in maniera determinate l’esistenza: i luoghi, le immagini, gli amici, gli amanti che fecero parte dell’affascinante universo di Tina. Che ha detto: “Metto troppa arte nella mia vita e di conseguenza non mi rimane molto da dare all’arte”.

L’esposizione copre tutto l’arco della vita di Tina, come fotografa, come musa e come attivista, ricostruendo sia la sua straordinaria parabola artistica – che la vide prima attrice di teatro e di cinema in California e poi fotografa nel Messico post-rivoluzionario degli anni venti – sia la sua non comune vicenda umana. Le foto esposte rappresentano l’insieme del suo lavoro di fotografa, il frutto di una visione chiara e appassionata, in perenne conflitto fra la creazione artistica (che, sia pure “inconsapevolmente”, è alla base di tante sue splendide e raffinate immagini) e l’impegno civile. Un conflitto che Weston sintetizzava con queste parole: “L’arte non può esistere senza la vita, lo ammetto, ma nel mio caso la vita è sempre in lotta per il predominio e l’arte ne soffre”. Parole che sembrano cucite addosso anche alla figura e all’opera della indimenticabile Tina.

In piena civiltà dell’immagine, quando anche le più terribili testimonianze visive rischiano di non oltrepassare il muro dell’indifferenza, di fermarsi al di qua della soglia dell’attenzione, le fotografie di Tina Modotti riescono ancora a “bucare” lo schermo opaco dell’abitudine, emozionando con la loro forza e bellezza. Sono immagini che parlano di un rapporto raro, nella storia della fotografia, tra vita e visione, tra bellezza ed etica, grazie all’impareggiabile sintesi di ricerca formale e impegno sociale, che è tuttora obiettivo “alto” in qualsiasi campo artistico e nella moderna comunicazione visiva. Continua ad avvolgere la figura di Tina un alone di romanzo, come se la sua biografia (a cui si dedicano da anni tanti studiosi) fosse, in tutto o in parte, non un tracciato di vita veramente vissuta, ma un’invenzione continuamente alimentata dall’immaginario collettivo; come scriveva Valentina Agostinis, oltre venti anni fa’, in un bel libro pubblicato dalle Edizioni dell’Immagine di Cinemazero, “la sua biografia, scritta più volte, raccontata da più voci, non è mai lei. La sua vita è così potente perché è un enigma. Da un certo punto in poi, infatti, Tina tace, la sua singolarità si confonde totalmente con l’azione”. Restano le sue foto, è lì forse che bisogna attingere per ricostruire il suo percorso esistenziale, fatto di grandi impeti ma anche da urgenze immediate di intervento più diretto nella vita reale. Ma la forma creativa e comunicativa del suo “impegno” totale, da lei scoperta e praticata lungo tutto il percorso della sua vita, è “centrale” nel suo modo di esprimersi e di essere. La fotografia le crea esaltazioni, ma anche “rimorsi”, come si evince da una lettera a Weston del 1929, in cui scrive: “A volte penso che sarebbe più onesto da parte mia rinunciare a tutte le pretese e non fare più fotografia, al di fuori del puro lavoro commerciale con i ritratti. Tuttavia è un sacrificio e mi fa male al solo pensiero, così continuo, ma i risultati non mi soddisfano mai”.