Non comprendere l’arte, ieri e oggi

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La Biennale del 1897 nel giudizio di uno che doveva intendersene

di Roberto Curci

 

«Che miseria, che miseria! Era questa l’unica riflessione suggeritami dalla esposizione artistica veneziana del 1897. Che miseria! Andavo macchinalmente ripetendo, mentre fuggivo tediato dalle tetre sale, su cui incombeva la tristezza dei tentativi mal riusciti, delle aspirazioni non effettuate».

E ancora: «Una volta, ai tempi beati dei nostri padri, quando le arti, libere figlie del Cielo, fiorivano come ‘boschi di querce e cespiti di rose’, i pittori si dividevano in tre categorie: i sommi, i mediocri, gli inetti. Ma ora! Ora ci sono i simbolisti, gli impressionisti, i divisionisti, i puntinisti, e, se Dio vuole, i secessionisti! Parole, parole, null’altro che parole!».

Così deprecava un tale che di belle arti s’intendeva, o avrebbe dovuto intendersi, dato che al collezionismo dedicò una buona fetta delle sue fortune. Parliamo di Mario Morpurgo Nilma (1867-1943), colui che col suo testamento, redatto due anni prima della morte, lasciò in dono alla città natale la propria splendida magione di 600 metri quadri, completa di mobili, arredi e opere d’arte: quella che oggi costituisce uno dei tanti (troppi?) Civici Musei “minori” sparpagliati in Trieste – al civico 5 di via Imbriani – e che da tempo è visitabile (salvo chiusure per malaugurate cause di forza maggiore) un solo giorno alla settimana.

“Privo di originalità intellettuale, spesso moralista e conservatore” aveva la schiettezza di autodefinirsi questo ricco imprenditore, discendente di una stirpe di banchieri ebrei askenaziti scesi a Trieste dalla Stiria. Che fosse un “laudator temporis acti” risulta lampante dalle frasi citate: e tuttavia tra le opere che, soprattutto negli anni ’30, collezionò non mancarono (come a suo tempo ricostruito da Lorenza Resciniti) i Boecklin e i Callot, i Bianchi, i Ciardi e i Morelli, ovvero proprio alcuni di quelli che, nel 1897, aveva snobbato alla seconda Biennale veneziana.

I suoi giudizi, le sue predilezioni, nonché le sue antipatie e stroncature, si possono apprendere da un memoir edito nel 1810 da Giovanni Balestra: “Impressioni e ricordi”, nel quale ancora ci si può imbattere in rigatterie e bancarelle. L’autoritratto è alquanto illuminante, anche se non fa presagire né la passione con cui ben più tardi, assieme alla moglie Matilde Mondolfo, si dedicò ad abbellire sempre più la sua preziosa dimora né la filantropia e la generosità che, oltre al lascito della residenza triestina, si risolse pure nella donazione dell’intera tenuta di Varda (Pordenone), inclusa la sontuosa villa omonima.

Ma, vien da chiedersi, non c’era davvero nulla da salvare, in quell’esposizione veneziana del 1897? Sì, c’erano i Preraffelliti, benché a Morpurgo Nilma sembrasse quasi inverosimile che un “popolo antiartistico per eccellenza”, ossia “i freddi, metodici e positivi Britanni” ghiotti di “bistecche sanguinolente” e “intrepidi tracannatori di whisky”, avessero pur potuto produrre pittori quali Burne Jones e Walter Crane, presenti appunto alla seconda Biennale e unici nomi citati in positivo. Rimane il fatto inquietante che nella generale “miseria” di quella rassegna, nulla evidentemente dissero al Nostro le opere – pur esposte – di gente della caratura di Monet, Redon, Rodin, Moreau, Puvis de Chavannes, e neppure i Klinger, gli Khnopff, i Singer Sargent, i Whistler, i Sorolla, i von Stuck e quel Boecklin che, a tempo debito, avrebbe finito per figurare sulle pareti di Palazzo Morpurgo Nilma. (Per puro spirito di campanile si aggiunga che fra gli italiani – Fattori, Segantini, Signorini, Previati…. – non mancavano quattro artisti triestini: Cambon, Croatto, Grimani e Rietti).

Furono quattordici i Paesi rappresentati in quella remota Biennale, reclamizzata – come tante altre a seguire – dagli squisiti manifesti di Augusto Sezanne. Molti e molti anni dopo – 2019, 58.a edizione – le sole “partecipazioni nazionali” sarebbero state trentacinque, e il totale sarebbe risultato di 79 artisti presenti. L’ambizione del curatore Ralph Rugoff per una mostra sibillinamente intitolata “May You Live in Interesting Times” era di esporre il mondo intero, dalla A di Andorra e Antigua e Barbuda alla V del Venezuela e alla Z dello Zimbabwe. E difatti vi figuravano, per dire, pure rappresentanze di Grenada, Kiribati, Seychelles e Madagascar.

Ma sarebbe interessante sapere quanti fra i quasi 600 mila visitatori se ne siano poi andati mormorando “miseria, miseria”, come il buon Morpurgo Nilma. Parecchi, supponiamo. Indizio – forse – di un’incomprensione concettuale che, come rendeva assurdi i vari “ismi” di fine ‘800 al borghese “conservatore” triestino, così rende assurda la fitta foresta delle installazioni e dei senza titolo che, oggi come oggi, sono subentrati alle categorie (evidentemente stantie) della pittura e della scultura.

è del poeta il fin la meraviglia, secondo Giambattista Marino. Ma la definizione potrebbe applicarsi a buona parte degli artisti contemporanei, che giocano prevalentemente sulla sorpresa spiazzante o choccante e sull’indecifrabilità di quello che un tempo si definiva “messaggio”. Che in tanti “ci marcino”, pare evidente. Che poi – Biennali a parte – un mercato manicomiale completi il quadro con le sue astronomiche quotazioni per della pura fuffa, pare altrettanto chiaro.

Ma tant’è. Chi scrive queste righe e s’ingegna faticosamente di comprendere gli Hirst, i Koons e i Cattelan (o almeno di giustificarli e perdonarli) è probabilmente un novello Morpurgo Nilma, un ottuso “laudator”, non al passo con i tempi e con l’irrefrenabile evoluzione della (cosiddetta) arte.

Aspettiamo dunque la Biennale n. 59, ora in mano all’italiana Cecilia Alemani. Speriamo ci emozioni, dato che, se qualcosa si è perduto nella fruizione dell’arte d’oggi, beh, sono proprio le emozioni, quel brivido che ti fa sostare dinanzi a un’opera, mirarla e rimirarla, rifletterci su e memorizzarla.

Al momento una sola certezza: l’Olanda (anzi, pardon: i Paesi Bassi) ha/hanno rinunciato al proprio storico Padiglione ai Giardini. Che sia un altro dispetto neerlandese nei confronti dell’Italietta?