I ladri

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di Giuseppe O. Longo

 

Al numero 70 di quella via sorgeva un vasto complesso di edifici di varia forma e grandezza, tutti più o meno fatiscenti, molti con le imposte cadenti e le inferriate divelte. Tra un edificio e l’altro sentieri sterrati invasi dalla gramigna e dalle ortiche. Si diceva che gli abitanti del numero 70 fossero tutti ladri, e circolavano storie paurose sulla loro crudeltà. A quei tempi facevo la collezione dei francobolli, che scovavo qua e là, soprattutto sulle buste delle lettere che ricevevano i vicini. Per esempio la signorina Elena, una zitella che faceva la modista due portoni più in là, aveva una sorella in Francia che le scriveva spesso, sicché passavo da lei ogni due o tre giorni per vedere se avesse ricevuto una lettera e le chiedevo di darmi la busta. Qualche volta s’incaponiva a ritagliare lei il francobollo e siccome da vicino non ci vedeva, sciupava la dentellatura, ma non potevo certo sgridarla. Ben presto scoprii un’altra possibile fonte di approvvigionamento: nella mia classe, facevo la quinta elementare, c’era un bambino scuro di carnagione, tranquillo e studioso, un certo Antonio. Pian piano cominciai a conoscerlo, e un giorno buttò lì che aveva dei parenti in Argentina. Elaborai questa notizia per qualche tempo, finché la settimana dopo gli chiesi, vi scrivono questi parenti, e lui subito rispose, certo, molto spesso. Mi si aprirono orizzonti vaghi e coloriti di francobolli esotici, altro che i poveri RF (raffa, li chiamavo io, piccolo dilettante) della signorina Elena, ai quali ormai ero così abituato che non andavo quasi più a trovarla. E qualche giorno dopo chiesi ad Antonio se potevo passare da casa sua, perché io facevo la collezione di francobolli e forse su quelle buste… Il ragazzo, che tra me cominciai subito a chiamare l’argentino, m’invitò subito, quello stesso pomeriggio, e mi disse che abitava al 70 di quella famosa via. Rimasi un po’ spiazzato, incerto tra il fascino dei francobolli e il timore dei ladri, e mi domandai se anche Antonio facesse parte di quella congrega pericolosa, che però mi attirava proprio per il rischio che rappresentava. Verso le due entravo nel grande portone sgangherato del 70 e penetravo nel mondo leggendario dei ladri. Non sapevo orientarmi nel labirinto di viottoli e di casupole, di baracche, di tettoie cadenti e rugginose, l’argentino mi aveva dato delle indicazioni, ma ora per l’emozione non ricordavo niente. Vidi un tizio, seduto a cavalcioni di una sedia all’uscio di una di quelle casette. Aveva una faccia sorcigna e i baffetti proprio da ladro, come altro poteva avere i baffi un ladro? Mi feci coraggio, pensando che non avevo niente che potesse rubarmi, e gli chiesi di Antonio. Mi rispose gentilmente, con una pronuncia strana, e in poche svolte arrivai davanti alla casa dell’argentino. Oltre a lui c’erano molte altre persone, ladri e ladre, evidentemente, ma tutti belli, coi capelli neri e lucidi, gli occhi vellutati, che mi sorridevano con barbagli di denti d’oro nella penombra della cucina, che doveva essere il centro della casa. Un uomo mi chiese qualcosa, e subito lui disse, burdèla, ma una donna lo rimproverò, non vedi che è un bambino, io capivo e non capivo, ero confuso e sopraffatto dalla gentilezza e dal calore di tutte quelle persone. Una vecchia si mise a fumare la pipa e mi sorrideva facendomi l’occhiolino, era tutta sdentata, ma il sorriso era cordiale. Anche gli altri si misero a fumare, ridendo e parlando una lingua strana. Poi Antonio mi consegnò un pacchetto di buste, intravidi i francobolli, la profusione dei colori, le facce di certi personaggi ignoti, li avrei contemplati poi nei giorni, imparando a distinguere il generale José de San Martin, il presidente Bernardino Rivadavia, un altro presidente, Domingo Sarmiento, imparai parole come correos, yacaré, tierra del fuego, centavo… Ma intanto, nella cucina degli argentini stavo bene, le donne mi coccolavano, una mi carezzava i capelli, pensavo che i ladri erano proprio delle brave persone…