L’ultima regia di Strehler

| | |

Una lettura appassionata e controcorrente del regista triestino in una sua messinscena postuma di Così fan tutte di Mozart

di Luigi Cataldi

 

Strehler aveva concepito Così fan tutte, il capolavoro di Mozart e Da Ponte, come il primo frutto di una stagione artistica nuova, in cui anche il melodramma, finalmente, sarebbe stato ricondotto all’interno del “teatro d’arte”, cioè (come egli dice in una delle tante lettere di dimissioni polemicamente presentate all’amico Paolo Grassi) «un teatro che fa prodotti artistici di primo livello, che li mantiene nel tempo uguali a come sono nati e li fa vedere a decine di migliaia di persone». Un teatro in cui non ci siano due teste che dirigono, ma una sola, quella del regista, che sia lontano dallo star-system dei teatri operistici, che abbia una compagnia stabile, capace di assicurare nel corso delle repliche la stessa qualità della prima. Questa possibilità pareva realizzarsi con il Nuovo Piccolo Teatro di Milano, oggi a lui intitolato, e con un’opera tutta affidata a giovani interpreti (l’Orchestra sinfonica di Milano, diretta dal trentasettenne Ion Marin, il Coro della civica scuola di musica e i cantanti quasi tutti esordienti) di cui avrebbe avuto il totale controllo. La prima era prevista per il 26 gennaio 1998, ma egli morì il 25 dicembre, così questo esordio divenne il suo testamento. Ebbe solo il tempo di fare undici giorni di prove, seppure mai in palcoscenico, poi la regia venne assunta dal suo assistente Carlo Battiston. In occasione della prima lo scenografo Ezio Frigerio disse: «Non è una regia di Strehler». Al contrario, il direttore musicale Ion Marin dichiarò che lui sentiva presente in ogni momento «quel signore dai capelli bianchi», «per metà Don Chisciotte e per metà Cherubino». Ci restano comunque la registrazione video della prima, diversi documenti (note di regia, resoconti delle prove, lettere ai collaboratori, fra le quali un corposo carteggio con Carlo de Incontrera, suo consulente musicale, di cui Matteo Paoletti dà conto in un articolo reperibile in rete) che ci permettono di comprendere come Strehler leggeva quest’opera.

Per chi non la ricorda ecco la trama. Due giovani soldati, Guglielmo e Ferrando, per mettere alla prova la fedeltà delle loro promesse spose, Fiordiligi e Dorabella, fingono di partire per il campo di battaglia e tornano travestiti da albanesi: ciascuno tenterà di sedurre la donna dell’altro. È questo il frutto di una scellerata scommessa con il vecchio cinico don Alfonso, loro amico. Nel giro di una sola giornata, grazie anche alle macchinazioni della serva Despina, le ragazze si lasciano conquistare. Don Alfonso ha vinto. Seguono finti contratti nuziali di un finto notaio (Despina travestita), il finto ritorno dei soldati dal fronte, accuse, pianti, supplicar perdono, poi la riconciliazione e il lieto fine.

L’opera (il libretto soprattutto) fu stroncata da molti eccellentissimi, dai primi biografi, passando per Beethoven, Hanslick, Wagner, giù fino a Massimo Mila: «buffonesco gioco di caricatura» i cui personaggi sono «burattini sostanzialmente intercambiabili come i pezzi d’un gioco di pazienza» (Massimo Mila, La geometria amorosa di “Così fan tutte”). Ancora oggi, nonostante la rivalutazione critica (da Edward J. Dent in poi) abbia ridato il giusto valore sia alla musica che al testo, sono frequenti le messinscene in cui i quattro giovani si muovono a comando del burattinaio don Alfonso (come capita nella versione salisburghese di Claus Guth del 2009, tanto fortunata quanto noncurante del testo mozartiano).

Strehler è di tutt’altro avviso: «Questo “giochetto” che è nella vita umana, Mozart l’ha esaltato e messo in luce crudele, ridicola e pietosa al tempo stesso. Che povere e ridicole cose siamo noi umani quando amiamo! […] Così Fan Tutte cela una grandezza così misteriosa che pochi riescono a capirla. Per questo i giudizi sono tutti così miseri e falsi. Non capiscono nemmeno la trama. Ed è come prendere La Tempesta di Shakespeare per una commedia fantastica per marionette e trucchi».

Il regista triestino colloca la prima scena, la scommessa, in una bottega del caffè i cui tavolini, all’aperto, si trovano davanti al «Real Teatro San Carlo di Napoli». I soldatini si illudono che la vita sia onore, ordine, fedeltà, ubbidienza; Don Alfonso che, dice Strehler, è «una specie di Casanova in disarmo, vizioso e anche laido, ma intelligente», uno che non crede più in niente ed «è contento perché il mondo è così», li trascina in questa, per loro vitale, avventura.

Il testo è interpretato con «un lavoro filologico non pedante ma serio», come scrive a De Incontrera. Un esempio riguarda i mustacchi. Da Ponte li aveva dati agli albanesi; Strehler li appiccica ai soldatini. I baffi sono in teatro la quintessenza della finzione. Dunque finti, che qui significa illusori, sono, se non proprio i due soldatini, almeno i loro pregiudizi iniziali. Ciò costringe il regista triestino a sacrificare la celebre aria Non siate ritrosi (I.11), tutta costruita sui mustacchi dei due albanesi, e a recuperare quella che Mozart aveva inizialmente composto per la prima viennese (Rivolgete a lui lo sguardo), altrettanto bella e quasi mai eseguita, e a modificare qualche parola del testo. Più veri dei soldati, «i due albanesi non hanno né mustacchi né barbe. […] Sono molto strani, molto piacevoli, quasi un po’ femminili ma virilissimi nelle azioni che però sono sempre delicate, appassionate e diverse da quelle degli uffiziali. […] Le due donne si trovano con loro in un altro mondo. Raffinato e sconosciuto». Diversamente da Da Ponte che aveva reso Guglielmo geloso di Fiordiligi, ma non innamorato di Dorabella, Strehler lo fa amante appassionato di lei (eliminando dalla scena amorosa dei due, II.5, tutti gli “a parte” che ne rivelano la doppiezza). In questo modo tutti e quattro i giovani hanno voglia ora di amare e di soffrire; di vivere, insomma.

«Ci troviamo di fronte a un’opera oscillante, misteriosa. Come i sentimenti. […] È vero o è falso quello che succede? […] Ma, ragazzi, ve lo ripeto ancora: o ce la facciamo a mettere in luce il lato sconosciuto di quest’opera assolutamente ambigua dove l’incerto, il vero, il falso, la passione, da gioco possono diventare veri o il contrario oppure è meglio rinunciare», dice Strehler ai cantanti durante le prove. Cruciale è dunque rappresentare questa ambiguità. Nel finale, che pone problemi grandissimi a chiunque si misuri con questo testo, essa è massima. È credibile che i quattro giovani, dopo i reciproci tradimenti, si riconcilino e si sposino? E quali coppie si formeranno, quelle iniziali o quelle invertite? Da Ponte non dà indicazioni. «Cosa si può fare? Ma perdonarsi!, capire che la vita è fatta così. […] Così siam tutti!» Fragilità umana e necessità dell’indulgenza, con conseguente riconciliazione, in effetti sono tratti fondamentali di tutta la trilogia di Mozart e Da Ponte. Nondimeno riconciliare due coppie di amanti che si sono traditi e ingannati non è facile. Strehler per questo ricorre all’identità di vita e teatro. Per il coro finale («Fortunato l’uom che prende / ogni cosa pel buon verso / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa») riappare il fondale raffigurante il Teatro san Carlo. Di colpo i sei personaggi si tramutano in attori che, rivolti al pubblico, cantano la morale dell’opera. Sono affaticati e contenti, ridono, scherzano e si scambiano i vestiti, senza riguardo per sesso, ruolo, età, ceto. In scena c’è anche una grande «cesta d’Arlecchino», portata lì poc’anzi dai soldati, dalla quale è sbucata fuori Despina travestita da notaio. Si comincia a ributtare le “robbe” dentro la cesta, come farebbero i comici dell’Arte alla fine della recita. Il fondale, una sorta di tenda, ora lo si ricorda, è lo stesso che ha fatto da sfondo alla prima scena, quella della scommessa fra i soldatini e don Alfonso. Non solo Despina, «finta come cameriera, come dottore, come notaio», è uscita da quella cesta, ma tutto lo spettacolo: tutto finto come il teatro e tutto vero come la vita o viceversa.

 

Wolfgang Amadeus Mozart

e Lorenzo Da Ponte

Così fan tutte

regia di Giorgio Strehler

e Carlo Battistoni

Piccolo Teatro di Milano

1997/98

foto di Luigi Ciminaghi