George Tatge racconta l’Italia metafisica

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di Walter Chiereghin

 

“Italia Metafisica” è il titolo della mostra di immagini fotografiche di George Tatge, curata da Diego Mormorio, che dallo scorso mese di marzo e fino al 30 luglio è visitabile presso la galleria Harry Bertoia di Pordenone.

L’Autore, italo-statunitense, è nato a Istanbul nel 1951 da madre italiana e padre americano. Ha vissuto gli anni della formazione tra l’Europa e il Medio Oriente, prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Laureato in letteratura inglese, si trasferì in Italia nel 1973, anno della sua prima mostra alla Galleria Diaframma di Milano ed abitando dapprima a Roma, dove operò come giornalista, e quindi a Todi, dove rimase per dodici anni, scrivendo per Art Forum e altri, e portando avanti le sue ricerche fotografiche, prima di trasferirsi a Firenze, dove vive tuttora. Ha presentato mostre in America e in Europa e sue opere fanno parte delle più prestigiose collezioni, tra cui quella del Metropolitan Museum di New York, del George Eastman House di Rochester, del Houston Museum of Fine Arts, del Centre Canadien d’ArchItecture a Montreal, del Helmut Gernsheim Collection a Mannheim e della Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Dal 1986 a 2003 è stato dirigente tecnico-fotografico della Fratelli Alinari di Firenze. Dal 1991 al 2003 ha curato le immagini di copertina per gli elenchi telefonici italiani, realizzando immagini di opere d’arte o architetture in ogni capoluogo della penisola. Innumerevoli le personali di fotografia cui ha partecipato, oltre alle collettive con i più significativi fotografi di livello mondiale. La mostra attualmente a Pordenone, “Italia metafisica”, che sta girando l’Italia, ha aperto a Firenze nel 2015. Il catalogo, edito da Contrasto, ha vinto un premio IPA della Lucie Foundation di New York nel 2015 e il Premio Ernest Hemingway 2016 di Lignano Sabbiadoro.

Adopera tuttora il banco ottico, George Tatge: un Deardorff 13x18cm, un apparecchio pesante, ingombrante, che consente di lavorare soltanto con molta lentezza, anche se molte immagini che rimarranno nella storia della fotografia sono state scattate con dispositivi di questo tipo. Queste considerazioni di carattere tecnico sul lavoro di questo fotografo di grande successo possono apparire ridondanti, ma sono invece essenziali per capire lo spirito col quale Tatge si accosta al suo lavoro, fatto di lentezza, di osservazioni accurate prima dello scatto, che traducono poi l’oggetto di tale contemplazione in immagini di grande impatto emotivo, ma anche tecnicamente impeccabili, in grado di sopportare qualsiasi ragionevole ingrandimento e di rivelare con nitidezza ogni minimo dettaglio dell’immagine ripresa. Potendo contare su questi prerequisiti di esecuzione, l’esposizione si articola in sessantasei immagini in bianco nero, che sono il riassunto per immagini di un lungo appassionato peregrinare per l’Italia, attraverso il suo paesaggio, prevalentemente urbano anche se quasi sempre deprivato di presenze umane, che, quando ci sono, occupano uno spazio e un ruolo minimalista nell’insieme della composizione fotografica, attenta invece a narrare attraverso le pietre e i marmi di dettagli architettonici sovente archeologici il sovrapporsi di strati che testimoniano quello che è stato il complicato percorso della storia del nostro Paese.

L’uomo, grande assente nelle immagini esposte, è al contrario onnipresente in esse tramite il suo intervento, riscontrabile nei frutti della sua capacità di progettare ed edificare, modificando il paesaggio naturale, qualche volta nobilitandolo, altre volte violentandolo. Risulta evidente che la stessa tematica, unita all’aura di sospensione del tempo e di mistero inesprimibile di queste immagini reclama un esplicito accostamento alla pittura metafisica che, nei primi anni del Novecento, irruppe nell’arte italiana ad opera di Giorgio de Chirico, di Alberto Savinio e poi di Carlo Carrà e Giorgio Morandi. Assai più che la corrispondenza di similitudini nel soggetto e dell’apparato scenografico, il lavoro di Tatge è accostabile a dipinti come quelli delle Piazze d’Italia per l’immobilità impassibile del rappresentato, in opposizione all’esaltazione del più sfrenato dinamismo tanto per quanto riguarda la società e la cultura in cui è immerso il fotografo, quanto per l’esaltazione della velocità propria del movimento futurista cui si contrappose l’arte di De Chirico. L’intenso lirismo in cui confluiscono, in un’indeterminata sospensione del tempo, i singoli elementi che, isolati dal contesto o anche contigui tra loro, narrano della storia, della natura e dell’intervento umano, trascendendo in qualche misteriosa maniera la fisicità di quanto riprodotto sulla stampa fotografica, il che dà ragione del titolo che si è voluto per questa esposizione.

Esiste, nelle immagini selezionate da Tatge per questa occasione espositiva, un altro componente, oltre la luce e l’ombra che conferiscono ritmo a queste meditate visioni, un comprimario a prima vista celato, che è il tempo, avvertibile appena in alcuni casi, nella screpolatura di un intonaco, nell’allargarsi di una interruzione del manto d’asfalto di una strada (Sampietrini, 2011), nell’estremo indugiare sul ramo di alcune foglie d’autunno (Tre facciate, 2000), nel proiettarsi dell’ombra di una chiesa su una facciata (Piazza Capranica, 2007), in altri casi suggerito esplicitamente dall’accostare, nell’inquadratura, elementi di architetture cronologicamente distanti (13,58, 2010), o improbabili accostamenti tra elementi compositivi eterocliti (Chiesa dei pallets, 2010). E poi ancora il tempo, chiamato a denunciare il degrado e l’abbandono (Ex-zuccherificio, 2012 o Miniera abbandonata, 2001). In tutti i casi, un’esplorazione attenta e appassionata di questo nostro ossimorico Paese, capace di offrire straordinaria bellezza e di dilapidarla nell’incuria, ma anche di saperla rievocare e reinventare quando il genio di un’artista affronta la devastazione per ricreare ulteriore straordinaria bellezza, com’è nell’immagine raccolta da Tatge a Gibellina nel 2001 nel suo Il Cretto di Alberto Burri, che chiude, crediamo non a caso, il bel volume del catalogo.