Il ritorno in presenza per analizzare il presente

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di Alan Viezzoli

 

Il festival del Cinema di Berlino del 2020 è stato l’ultimo grosso evento prima dalla pandemia. Mentre dall’Italia arrivavano le prime notizie delle chiusure di scuole e negozi, nella capitale tedesca continuavamo a vivere la manifestazione come se nulla stesse accadendo attorno a noi.

Dal 10 al 20 febbraio 2022 siamo tornati a Berlino, di nuovo in presenza, dopo un’edizione in formato ridotto svoltasi online nel 2021. Ritorno caratterizzato da non poche difficoltà e rigide norme anti-contagio che prevedevano mascherine durante le proiezioni, capienza delle sale al 50%, prenotazione online dei posti e tamponi giornalieri per i membri della stampa. Tutte queste misure – doverose e apprezzate – non hanno però impedito di respirare di nuovo il clima da festival. Perché la visione domestica dei film, per quanto più comoda, toglie tutta la componente sociale che un festival porta intrinsecamente con sé. Discutere dei film durante i pasti; confrontarsi in coda tra sconosciuti sui film visti nei giorni precedenti; decidere di recuperare un film inizialmente scartato perché chi l’ha già visto dice che è il film del festival. Tali comportamenti contribuiscono a creare un’atmosfera unica e irripetibile.

L’edizione di quest’anno, complice anche la pandemia che ha bloccato molte produzioni, si è rivelata un po’ sottotono: nel complesso i film del concorso si sono rivelati piuttosto anonimi e non è stato semplice trovare film che spiccassero sugli altri, che avessero qualcosa da dire e che lo facessero in maniera cinematograficamente interessante. Questo fatto lo si vede bene analizzando il palmares premio per premio.

L’Orso d’oro è stato vinto da Alcarràs della regista spagnola Carla Simón. Coprodotto con l’Italia, il film racconta di una famiglia di coltivatori di pesche che si trovano in difficoltà quando il padrone dei campi comunica loro che eliminerà tutti gli alberi per far posto a dei più redditizi pannelli solari. Se l’intenzione di raccontare la fine di una società rurale a conduzione familiare a causa dell’avidità di chi controlla la situazione (sia il padrone dei campi o il mercato che impone prezzi ridicolmente bassi), è nella messa in scena che il film funziona poco, preferendo la narrazione di piccole ripicche e inutili risentimenti personali a una visione di più grande respiro.

Un discorso simile vale anche per il Premio della Giuria a Robe of Gems, opera prima della regista Natalia López Gallardo. Anche in questo caso il film racconta uno spaccato familiare di una casa rurale, stavolta messicana, la cui fine sarà segnata dall’avvento delle nuove generazioni e dalla scomparsa di quelle vecchie. La scelta della regista di non presentare la famiglia ma di lasciare che sia lo spettatore a scoprire le relazioni tra i personaggi rende il film molto pesante e poco incisivo, finendo per annacquare il messaggio finale.

Molto più interessanti il Gran Premio della Giuria a The Novelist’s Film diretto dal regista sudcoreano Hong Sang-soo e il premio per la miglior regia a Claire Denis per il suo Both Sides of the Blade. Il film di Hong Sang-soo, pur rimanendo molto fedele alla sua idea di Cinema (bianco e nero, riprese statiche con lunghi dialoghi), si fa meta-cinematografico e più narrativo, parlando di Cinema con il Cinema.

Il film di Claire Denis, invece, è un classico triangolo amoroso che la regista francese tratta in modo inconsueto, quasi facendone un thriller.

Spiace per l’esclusione dai premi dell’unico film italiano, Leonora addio di Paolo Taviani, di cui parlo nell’articolo che fa da corollario a questa carrellata generale sulla 72ª Berlinale. Spiace ancora di più stante l’assegnazione di ben due premi al regista tedesco Andreas Dresen per il suo Rabiye Kurnaz vs. George W. Bush, maldestro tentativo di rendere commedia brillante, a tratti demenziale, la vera lotta di una madre turco-tedesca per ottenere il rilascio di suo figlio, ingiustamente detenuto a Guantanamo.