VENEZIA 72

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Considerazioni a margine della Mostra del Cinema

Gianfranco Sodomaco

 

Partendo dai premi. Critica concorde: è stata una sorpresa, ma fino ad un certo punto! Il ‘Leone d’oro’, andato al film venezuelano Desde allà di Lorenzo Vigas, e quello d’argento per la migliore regia a El clan, dell’argentino Pablo Trapero, non erano previsti (in particolare il primo) eppure… Eppure il direttore della Mostra del cinema, Alberto Barbera, ci aveva avvisati: sarà la Mostra delle ‘nuove realtà’ (chi meglio di lui, che i film li ha scelti?), e il cinema sudamericano è portatore di novità. Non basta: il presidente della Giuria, il regista messicano Alfonso Cuaròn, quando afferma “che nelle decisioni non c’è stata unanimità”, sta a significare che il suo peso, nelle decisioni, può essere stato rilevante e, da buon messicano, non poteva essere insensibile a quelle cinematografie a lui vicine (anche se lui ha negato). Dunque aspettiamo di vederli, questi e altri film premiati, e poi giudicheremo. Intanto qualche parola su ciò che già siamo riusciti a vedere, inevitabilmente i film italiani, un mezzo disastro: riconosciuto dalla Giuria Per amor vostro di Giuseppe Gaudino, ma solo per la Coppa Volpi alla nostra Valeria Golino quale miglior interprete femminile.

Ma cominciamo da Sangue del mio sangue, di Marco Bellocchio, giunto al suo 27o film: beh, dopo ventisei film girati in quarant’anni, non si può pretendere che l’ultimo sia un capolavoro (anche perché di capolavori ne ha già firmati e non staremo qui a fare l’elenco). Bellocchio è un regista a tutto tondo, si innamora delle sue storie, ma alle volte questo è un rischio, c’è il rischio di perdere il distacco, la lucidità necessaria. Questa volta è andata, secondo me (contrariamente a certa critica che, come lui, s’è innamorata della storia) proprio così: Bellocchio si ‘ingarbuglia’, si avvita su se stesso quando vuol raccontare, e mettere in qualche modo a confronto, addirittura due epoche, due storie diverse, ma ambientate, immaginate dove?, nel suo paese d’origine, Bobbio (Piacenza). L’operazione non è nuova per Bellocchio, già il suo primo film (quello sì un capolavoro: I pugni in tasca) l’aveva girato a Bobbio e a Bobbio vi è tornato, cinque anni fa, per Sorelle Mai (parenti della famiglia Bellocchio), con cinque parenti al seguito. Bobbio come ossessione? Alle due storie tenterò di accennare perché sono un intrico, un labirinto: nella prima c’è una suora di clausura, Benedetta, che seduce un prete e per questo viene torturata dal tribunale inquisitore secentesco per vedere se è ‘assatanata’, se ha fatto un patto col diavolo oppure no. Se sì il prete, che intanto si è suicidato, è innocente. Sì, lei ha fatto il patto e lui è innocente, quindi ha diritto, chiede il fratello gemello (tutti e due i fratelli interpretati dal figlio di Bellocchio, Pier Giorgio) una degna sepoltura. Il fratello, Federico Mai (parente di Bellocchio) ‘cristianamente’, vuole vendicare il fratello e uccidere il demonio che è nella suora ma… la suora concupisce pure lui. Morale: quella creatura diabolica conviene murarla viva. Bellocchio dice che si è rifatto ad una storia/leggenda accaduta secoli fa proprio a Bobbio… Non solo: fa sapere che ha avuto un fratello gemello suicida e che non ha capito ciò che il fratello stava meditando. E allora? Dove sta il nesso reale? E allora andiamo alla seconda storia, odierna, che è quella del conte Basta (Mai, Basta…), che da anni si è ritirato nello stesso castello/convento di Maddalena e ha messo su una setta/Fondazione che potrebbe essere una piccola, provincialissima, P2. Arriva da Bologna un ispettore/truffatore che vuol far comprare il castello al solito danaroso russo: il conte (Roberto Herlitzka, attore stupendo che vive fortunatamente di vita propria) non è contrario all’affare ma cerca di ricavarci il malloppo e corrompe diabolicamente l’ispettore col denaro della Fondazione. Morale: arrivano le macchine della Finanza. Non è finita: manca l’epilogo e cioè che un vecchio cardinale, dopo secoli, fa smurare la suora. Si dice: i film non si raccontano, si vanno a vedere! Se qualcuno vuole andare a vedere… il film a episodi?, il film storico-familiare?, il film sulla presenza del diavolo tra di noi? Mah…

Per amor vostro, di Giuseppe Guarino, non è poi tanto diverso da Sangue del mio sangue perché, anche qui, in gioco è la famiglia, i figli, e Anna, donna del popolo napoletano, fa di tutto, nel bene e nel male, per salvaguardarla dal marito usuraio e violento e dalla vita dura dei quartieri ‘spagnoli’ (lei regge ‘il gobbo’ in uno studio televisivo, uno dei figli è sordomuto, una delle figlie è incestuosa). Laddove con Bellocchio i personaggi sono infiniti con Gaudino (furbetto) è tutto incentrato su Valeria Golino: che ce la mette tutta ma non può risolvere tutti i problemi di regia sollevati. A partire dalla lingua, dal dialetto napoletano: o scegli una versione accessibile (alla Eduardo De Filippo) oppure, se opti per i sottotitoli, li usi per tutte le scene: no, Gaudino sa quando il pubblico comprende e quando non comprende, beato lui! C’è poi ‘la grande intuizione’: quando Anna guarda il mare (ma non solo) vede il mondo a colori, si sente felice, e noi, come per i sottotitoli, assistiamo a un film costruito a sbalzi, che procede per variazioni improvvise, ai limiti del kitsch. C’è poi, dulcis in fundo, il finale ‘di fantasia’: Anna, tradita anche dall’uomo di cui si è invaghita e con cui ha tentato una ‘risalita’, si butta dal cornicione o, come accadeva durante la sua infanzia, vola, come una bianca colomba, sorretta dalla corda/carrucola preparata dalla nonna. Chissà, la rivediamo, nel colore, ‘atterrata’, tra le bianche piume dei volatili. È morta? Si è suicidata? È ‘volata in cielo’? Sia chiaro, il film qua e là colpisce, emoziona, commuove, ma è tutto nella espressività emotiva, vitale, di Valeria. Senza di lei il film ‘svapora’, non esiste…

Grande sorpresa, fuori Mostra. Doveva essere il quinto film italiano partecipe al Festival ma ha detto il direttore: cinque son troppi! È questa la spiegazione? Dopo aver visto Non essere cattivo, di Claudio Calegari, (morto dopo aver girato il film) viene qualche dubbio: troppo fuori dal circuito commerciale, troppo critico della realtà italiana, troppo ‘pasoliniano’ nel descrivere il sottoproletariato romano invasato dall’uso e spaccio della droga? E invece: film ‘robusto’, perfetto nella sceneggiatura, senza cedimenti fantasiosi o melodrammatici, realista nel senso nobile della parola. Non ho lo spazio per entrare nella storia dei due amici che, in modo completamente diverso, cercano di uscire da questo ‘girone infernale’ ma spero di poterne parlare alla prossima puntata. Così come di un altro ‘gioiellino’: La bella gente, di Ivano De Matteo, cioè di come una brava borghese toglie dalla strada una prostituta russa e poi finisce per rimetterla.