Lo strano caso del numero 44

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Una biografia composita e sfortunata, matematico, teologo, presbitero ortodosso, docente di varie materie, condannato al gulag e infine ucciso con un colpo alla nuca a 45 anni

di Francesco Carbone

 

Lo strano caso del numero 44 della Piccola Biblioteca Adelphi è questo: nel 1977, Adelphi pubblicò Le porte regali dell’allora semisconosciuto Pavel Florenskij, prima edizione mondiale di un saggio incompiuto e importantissimo del 1922 sulla visione del mondo presupposta e manifestata nelle icone russe. È il numero 44 di quella prestigiosa collana editoriale.

Le porte regali è forse soprattutto la storia di un divorzio dalla portata incalcolabile: da una parte l’Oriente che, nel solco di tradizioni e pratiche artistiche plurisecolari, cerca nelle arti la manifestazione mistica del divino; dall’altra l’Occidente, che da Giotto in poi si avventura in un’esplorazione dell’universo sempre più fedele all’apparenza delle cose: soprattutto dal Rinascimento, entusiasmandosi nello scoprirsi bravo a replicare, fino a virtuosismi illusionistici, la bellezza della “realtà” per come questa si dà allo sguardo di ognuno: nacquero la prospettiva, lo studio delle luci e delle ombre, il colore a olio, la pittura su tela, l’acquaforte, ecc.

 

Nel 1977 Florenskij era un autore pressoché sconosciuto non solo da noi ma nella stessa Russia. Le porte regali uscì a cura di Elémire Zolla, che per la diffusione di Florenskij in Italia ebbe un ruolo essenziale. Florenskij stava diventando un caso mondiale.

Saltiamo al 1994, quando viene pubblicata a Mosca l’edizione critica di Ikonostas (il titolo originale delle Porte regali): una nuova traduzione diventa così necessaria, anche sulla base di quanto era stato via via ripubblicato di Florenskij e di una conoscenza ben più ampia e approfondita del suo pensiero. L’Adelphi lo fa nel 2021, corredando la sua seconda traduzione con un apparato di note indispensabile, ma senza la presentazione di Zolla: la nuova edizione esce sempre nella Piccola Biblioteca Adelphi e… sempre come numero 44. Esistono dunque due numeri 44 della stessa opera (entrambi acquistabili quanto meno dal sito dell’Adelphi), non poco diverse l’una dall’altra.

Intanto, già nel 2008, un piccolo editore, la Medusa, aveva proposto una sua versione di Ikonostas con un titolo più fedele ma meno geniale: Iconostasi. A questa era seguita, nel 2018 la versione della Marsilio, dove ricompare l’introduzione di Zolla, e in cui leggiamo un’utilissima postfazione di Grazia Marchianò.

C’è un altro caso, almeno nella recente storia editoriale italiana, di un saggio – per di più su un argomento esotico come le icone russe – con una storia così complicata e fortunata?

 

Potremmo riconoscervi uno degli episodi del diffondersi degli scritti di Florenskij in tutto il mondo: emersione di un’opera immensa ancora in corso. Di Florenskij ci rimangono oltre mille titoli tra articoli e saggi.

In Italia, la casa editrice Mimesis ha iniziato l’edizione sistematica dell’opera di Florenskij: primo volume, Primi passi della filosofia (2021). Intanto, testi fondamentali sono stati pubblicati da Adelphi (soprattutto i saggi d’arte), Mondadori, SE, Quodlibet, ecc.

Brevissimamente: Pavel Florenskij nacque nei pressi di Yevlax, in Azerbaigian nel 1892. Si laureò a Mosca in matematica. Rifiutò la cattedra universitaria in quella facoltà per studiare teologia. Divenne Magister all’Accademia Teologica di Mosca con una tesi che diventerà la sua opera teologico-filosofica fondamentale: La colonna e il fondamento della verità (ne abbiamo due versioni: San Paolo 2010 e Mimesis 2012). All’Accademia Teologica, Florenskij insegnò dal 1908 Storia della Filosofia e Storia delle Idee. Diventato nel 1911 presbitero ortodosso, fu docente di teologia, arte, matematica, filosofia, fisica, scienze teoriche e applicate: discipline il cui stupefacente intreccio è nel suo pensiero inestricabile ed essenziale.

Dopo la rivoluzione del 1917, venne impiegato dallo Stato sia per le sue competenze tecniche e scientifiche che filosofiche: tra l’altro, al VChUTEMAS (Ateliers superiori tecnico-artistici), dove insegnò per tre anni Analisi della spazialità nell’opera d’arte e Analisi della prospettiva: discipline pionieristiche che anche nelle Porte regali trovano un loro esito essenziale.

Nel fervore dei primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre, il VChUTEMAS – come il Bauhaus in Germania – fu il laboratorio di una didattica artistica che «avrebbe dovuto annullare le distinzioni ottocentesche, sia disciplinari che gerarchiche» tra arte applicata e arte pura, ingegneria e architettura, ecc. (N. Misler, Postfazione a P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi 1993).

Sempre in questo periodo, Florenskij scrisse Le porte regali a partire da un’urgenza: salvare le icone dal rischio che venissero portate via dai monasteri o addirittura distrutte dal nuovo stato ateo.

Nel 1933, fu accusato di trozkismo; fu arrestato e condannato a dieci anni di gulag nelle isole Solovki. Su questo, ci restano le lettere alla moglie e ai figli (Non dimenticatemi, Mondadori 2020). L’8 dicembre 1937, a 45 anni, fu ucciso con un colpo d’arma da fuoco alla nuca.

 

Torniamo a Le porte regali. Si potrebbe cominciare da questo: ogni cosa visibile non è mai solo ciò che può apparire a uno sguardo indifferente, ma sorge su un «confine» (parola essenziale in Florenskij) con l’invisibile. Nell’invisibile è l’essenziale. È questa del resto un’esperienza che facciamo tutti: quando vediamo con quali occhi indifferenti gli estranei osservano un oggetto di cui noi conosciamo il valore intimo e prezioso. Alla fine dell’Odissea, Penelope dice così l’intimità con Ulisse: «abbiamo dei segni che noi soli sappiamo, nascosti agli estranei» (Libro XXIII, v. 110).

Quanto è vero nella nostra esperienza più intima è vero sempre: ogni oggetto, ogni esperienza, è sempre simbolo di qualcosa di ben più grande. Simbolo è il concetto essenziale: il cuore del pensiero di Florenskij.

Impossibile non pensare alle Corrispondenze di Baudelaire («La Natura è un tempio…»). In Florenskij non troviamo Baudelaire, ma è presentissimo Goethe – quasi un modello – che scriveva che si ha un simbolo «quando il particolare rappresenta il più universale […] come viva rivelazione istantanea dell’inesplorabile» (Massime e riflessioni).

In una bellissima lettera ai figli, dal gulag Florenskij scrive: «La superficie della vita di cui si può ed è concesso parlare è molto sottile […]. Certo, si cerca di conoscere anche il resto, ma lo si può fare solo sbirciando, e non osservando spudoratamente; all’ignoto bisogna giungere “con un ragionamento illegittimo”, come della conoscenza delle tenebre originarie della materia scriveva Platone, e non – sia detto in aggiunta – tramite chiari sillogismi.» (Ai miei figli, Mondadori 2009).

Tutta la stupefacente, quanto meno per la vastità delle conoscenze, opera del platonico Florenskij è la ricerca di questi «ragionamenti illegittimi» che ci possano portare sulla schiusa «porta regale» dell’apparenza.

Si avvertono assonanze con la filosofia del secondo Heidegger, che soprattutto nella lettura di Hölderlin trovò l’humus per sviluppare l’idea che il pensiero possa interrogare il mondo solo tenendosi su una «soglia», con pudore, perché la “verità” non è qualcosa a cui possiamo giungere come Colombo sulle spiagge dell’America: come una terra di cui prendiamo possesso, ma da esploratori provvisori di un mistero che si svela e si vela, che resta enigmatico, cangiante, infinito. Florenskij e Heidegger vengono dalla stessa radice, dall’idea greca che la “verità” sia aletheia: qualcosa che si svela e si vela, che s’illumina e torna in ombra, e che resta sempre da interrogare.

 

Nelle icone, secondo Florenskij, è proprio questo che deve accadere. Massimo Cacciari riassume: «Il pittore di icone non imita, non rappresenta, ma, essenzialmente, toglie il velo, abbatte il muro di separazione, fa comunicare “questo e l’altro mondo”», e ciò che mostra non è «qualcosa da lui “immaginato e composto […], bensì una realtà effettiva, sostanziale» (M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi 2002; di Cacciari vedi anche Tre icone, Adelphi 2007).

Ma qui per noi occidentali Florenskij fa – direbbe Kierkegaard – un salto: l’oltre, di cui l’icona è la porta regale, è il Dio cristiano. E se l’icona è davvero ciò che rappresenta – Dio! –, allora Dio esiste. Riferendosi alla più celebre delle icone, Florenskij può scrivere: «esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è».

C’è un concetto, nella religione ortodossa che ci è estraneo, che è fondamentale: la circolazione silenziosa e continua tra invisibile e visibile è resa possibile dalla Sofia, e cioè – malgrado la caduta nel peccato – della «perdurante presenza del divino nella creazione» (R. Revello, Introduzione a La colonna e il fondamento della verità). A questa velata Presenza corrisponde la nostalgia umana del mondo prima del peccato: del mondo quando la creazione era perfetta.

L’Icona fa tornare, ci fa ricordare, la luce del paradiso. Tutto il pensiero di Florenskij è dichiaratamente platonico, ed è – come quello di Dante – un pensiero della luce (cfr. N. Valenti, Il Dante di Florenskij, Lindau 2021).

 

Questo salto dell’arte delle icone in Dio, lascia – per Florenskij – noi occidentali abissalmente indietro, sull’altra sponda del mondo: ciechi, contraddittori e folli, non sappiamo più vedere nelle cose simboli ma solo apparenze, fenomeni. Il mondo è ridotto a res extensa – come la chiama Cartesio –, totalmente asservito ai nostri desideri. Usurpato così il posto di Dio, possiamo vivere solo per la nostra Volontà di Potenza, e cioè nella follia. L’Occidente coincide col tramonto del Sacro, e in questo la diagnosi di Florenskij ribadisce quello che è quasi un luogo comune.

In questa visione, il suo idolo polemico è Kant («respingevo con tutto me stesso la scissione kantiana di noumeni e fenomeni», Ai miei figli, Mondadori 2009): perché, se l’essenziale (Dio, la legge morale, il nostro destino) è noumeno, e cioè qualcosa che si potrà sempre pensare ma mai conoscere, allora la «morte di Dio» constatata da Nietzsche è dietro l’angolo.

Questo proprio perché l’esperienza di Dio è possibile solo grazie ai simboli. E cosa sopravvive di noi alla morte dei simboli e di Dio? Per Florenskij, nel momento in cui in un fiore vediamo solo un fiore, siamo già perduti.

 

Quasi tutto ci fa dunque sentire, almeno all’inizio, lontani da Florenskij. Ma procediamo. Tra le pagine più belle delle Porte regali, ci sono quelle in cui descrive come si realizza un’icona: la cura per il legno, la campitura di biacca, la definizione degli spazi e delle proporzioni (su questo anche La prospettiva rovesciata, Adelphi 2020 e Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi 1995), la colorazione, la stesura dell’oro sullo sfondo. Tutto corrisponde a un rituale, tutto è metafisica e simbolo: momenti di una preghiera in cui agisce un «intelletto che risiede nelle dita e nella mano dell’artista».

Per l’autore di icone, la parola artista è quindi imprecisa: sarebbe meglio dire uomo religioso, sacerdote, santo. Lo vediamo bene nel film Andrej Rublëv di Tarkovskij (1966).

Ancora più lontana da noi è la certezza di Florenskij che la «certificazione» che l’opera dell’artista sia una porta regale, e non una mera «tavola» dipinta, può essere data solo dalla Chiesa. A differenza dell’artista occidentale, l’autore d’icone non è e non vuole essere libero, proprio come non vuole essere libero un uomo di Chiesa dal Vangelo.

 

Dunque, perché leggere un autore così distante, che ci propone lucidamente un ritorno al Medioevo come sola salvezza possibile dalla follia dell’uomo che si crede padrone del suo destino e della Terra? – Può accadere, se è un genio, che sia proprio chi a noi sembra rimasto “indietro” (il passatista, il tradizionalista, perfino il reazionario) quello capace di conservare lo sguardo lungo che abbiamo perso, quello consapevole della vera portata di modi di essere che in noi sono diventati ovvi, e quindi ingannevoli.

E che la pittura sia grande solo quando fa emergere nel visibile l’invisibile, è un’idea che fu alla radice della nascita della stessa arte astratta: Kandinskij, Rodčenko, Malevic, e l’amico di Kandinskij Paul Klee. Il richiamo nel visibile dell’invisibile è qualcosa con cui possiamo smettere di fare i conti?

O vogliamo credere, contemplando un Morandi, che stiamo solo osservando delle bottiglie?

 

Pavel Aleksandrovic Florenskij

Le porte regali

Saggio sull’icona

trad. Leonardo Marcello Pignataro

Adelphi, 1977

  1. 210, euro 15,00