Paesaggio italiano con macerie

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Senza parole non ci sono pensieri

di Francesco Carbone

 

«…fece aprire bordelli, taverne e sale da gioco, e fece pubblicare un’ordinanza che autorizzava i cittadini a servirsene. Fu così soddisfatto da questa specie di guarnigione, che in seguito non fu mai necessario neanche un colpo di spada contro gli abitanti della Lidia. Quei poveri infelici si divertirono a inventare ogni tipo di giochi…»

(Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere 2011)

 

Non sappiamo dove, ma ci corriamo incontro velocemente, e accelerando. Nel Pleistocene (da due milioni e mezzo a undicimila anni fa), per raddoppiare la ricchezza agli uomini occorsero 250.000 anni, adesso ne bastano poco più di sei. Se al tempo della rivoluzione agricola (5.000 a.C.) la popolazione umana cresceva di un milione ogni due secoli, adesso bastano dieci giorni (Nick Bostrom, Superintelligenza, Bollati Boringhieri, 2018). La cultura, o almeno la massa delle informazioni, non è da meno: «in cinque anni si è superato l’ammontare di dati trasferiti nella intera storia dell’umanità» (Mauro Calise, Fortunato Musella, Il principe digitale, Laterza 2019).

Solo YouTube ha 4.200.000 visualizzazioni al minuto: in un anno fa più di duemiladuecento miliardi di contatti. La tecnologia corre avanti, ai ritmi della legge di Gordon Moore, uno dei fondatori di Intel, secondo la quale il numero di transistor per unità di superficie raddoppia ogni diciotto mesi (Gianfranco Pacchioni, L’ultimo sapiens, il Mulino 2018). E mentre scriviamo, tutto questo si fa già preistoria. La conoscenza si travasa nelle macchine per intelligenze artificiali che ormai imparano da sole, anche loro sempre più in fretta. Da tempo non c’è un gioco in cui i robot non mortifichino gli uomini: persino nel complicatissimo Go.

 

In un contesto così proliferante d’informazioni e dispositivi a nostra disposizione, con gli 86 milioni di neuroni del nostro cervello dovremmo essere tutti molto più colti e svelti di Leonardo. E invece: senza che la cosa faccia sbattere molti occhi, le pessime conseguenze della nostra dipendenza dalle macchine sono evidenti come il riscaldamento della Terra (cfr. L’avatar di Kafka e Il secolo stupido sui numeri del “Ponte rosso” 37 e 44).

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In questo mondo, gli Italiani si trovano, ancora una volta, in balia del «fiume rovinoso» (Machiavelli, Il Principe, 1513) di eventi che non capiscono e non controllano. Luca Ricolfi (La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019) racconta un Paese che, erodendo i risparmi di decenni e gonfiando un debito pubblico che nessuno vuol pagare, gode di uno stile di vita che ha reso di massa il consumo di beni di lusso, ma in cui la maggioranza non lavora. Un Paese in cui, pur in stagnazione economica da almeno vent’anni, molti sono proprietari di seconde case, amano after-hours e ristoranti, comprano cellulari come quasi nessuno al mondo (terzi dopo Hong Kong e Corea del Sud), dedicano estrema cura alla persona (quasi un milione di interventi di chirurgia estetica all’anno), e spendono in droga il triplo di quanto trovano giusto dedicare all’istruzione dei figli (nel gioco ventun volte tanto). Senza produrne di nuova, si consuma, per non dire che si dilapida, la ricchezza accumulata dal dopoguerra (Geminello Alvi, Una repubblica fondata sulle rendite, Mondadori 2006); lo stesso si fa col suolo e la ricchezza artistica: spensieratamente. E i ricchi sono sempre gli stessi, addirittura da secoli, in un quadro che già Ruggiero Romano aveva definito perennemente «feudale» (Storia d’Italia, i Caratteri originali, Einaudi 1972).

 

Il rapporto tra le generazioni si è rinchiuso in gran parte nella dinamica del doppio legame (Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1972): provocando una dipendenza dei figli dai genitori sine die di cui si soffre a vicenda e da cui troppo spesso non si sa come emanciparsi. Essendo diventato un popolo sempre più anziano e sempre più di figli unici, agisce quello che sempre Ricolfi chiama «subconscio successorio», per il quale i giovani hanno elaborato il sottopensiero, tutt’altro che peregrino, che un giorno erediteranno i beni accumulati da nonni e genitori, senza bisogno nel frattempo di darsi da fare accettando lavori ritenuti degradanti. Come si sa, in Italia i NEET (Neither in Employment nor in Education or Training) sono oltre un terzo dei ragazzi tra i 20 e i 24 anni: il triplo della Germania, il doppio della Francia.

Chiara Volpato (Le radici psicologiche della disuguaglianza, Laterza 2019) ci racconta qual è la psicologia sociale in una situazione che in tutto l’Occidente ha visto crescere vertiginosamente la diseguaglianza: invece di ribellarsi, i poveri interiorizzano la loro condizione, senza fornirsi degli strumenti culturali necessari per leggerne le cause, e rassegnandosi all’«accettazione volontaria» dell’ingiustizia. Lo studio dell’arcano della sottomissione complice della diseguaglianza fu inaugurato nel 1549 da Étienne de La Boétie che scriveva, con uno stupore che oggi non possiamo permetterci, che «la prima ragione della servitù volontaria è l’abitudine» (Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere 2011).

Quest’abitudine, scrive Chiara Volpato, rafforza sempre più credenze che legittimano lo stato delle cose e che «sono strumenti essenziali per la costruzione e il mantenimento delle gerarchie sociali». Come gli illetterati Renzo e Lucia dei Promessi sposi, i subalterni credono – ma con un risentimento che non è più cristiano – che sia sempre stato così e che così sarà sempre, riducendo la storia delle «disparità in processi naturali». È un meccanismo nevrotico, e quindi di difesa dall’angoscia, essenziale per quelli che già Boccaccio chiamava i semplici, perché «credere nel mondo giusto aiuta a controllare la paura e assicura benefici psicologici non indifferenti», liberando dalle «lunghe e insidiose ruminazioni suscitate dal quesito perché proprio a me?». Allo stesso tempo, si immagina che potrebbe sempre venire un giorno in cui l’occasione finora mancata di un cambio radicale della propria vita si offrirà salvifica: molta televisione e molto cinema americano raccontano questa favola.

È una nevrosi che già Marx chiamò della falsa coscienza, ma senza offrire una chiave per riconoscere quanto potenti siano questi meccanismi psicologici per determinare il comportamento degli uomini, molto più dominati dai loro fantasmi (oggi rinforzati esponenzialmente dai social) che dai loro interessi. A differenza di quanto pensò Marx, la razionalità pura dell’homo oeconomicus è un olimpico stato mentale di serena e logica comprensione del mondo molto più a disposizione dei ricchi che degli altri.

 

Si può allora constatare che il vertiginoso aumento delle conoscenze, a cui si accennava all’inizio, si stia distribuendo secondo una curva non dissimile da quella della ricchezza: con una netta concentrazione in alto e un prosciugamento del sapere per le masse, che neppure immaginano i costi di questa ignoranza. Per l’élite, scienze sempre più complesse, dai linguaggi ardui e persino criptici (la finanza!); in basso lo sport, un residuo di religione, i nazionalismi e naturalmente la pubblicità. È questa la storia di internet, che ha visto negli anni la radicale concentrazione (al 90% americana) della rete nelle mani dei Big Five (Amazon, Google, Facebook, Apple, Microsoft) e di un sistema di intelligence sul quale è bene leggere Edward Snowden (Errore di sistema, Longanesi 2019).

«A chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Matteo, 25.29) è una delle frasi più disturbanti del Cristo, e effetto san Matteo è il modo con cui già nel 1968 il sociologo americano Robert K. Merton definì la dinamica sociale per cui i ricchi prendono quasi tutto, offrendo come consolazione la teoria neoliberista (la Scuola di Chicago di Milton Friedman e George Stigler) secondo la quale, se non sarà ricca la mensa dei ricchi, non ci saranno briciole che cadranno dal loro tavolo a nutrire gli altri.

L’errore catastrofico e pluridecennale della sinistra è stato di non aver neppure immaginato un New Deal per l’istruzione: «tutti, ma proprio tutti, gli interventi sottolineano l’importanza dell’istruzione» (Chiara Volpato, op. cit.). In Italia siamo al 47% di analfabeti funzionali, e senza parole non ci sono pensieri.