I sonetti a Orfeo di Reiner Maria Rilke

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Parole che sorpassano la ragione discorsiva, simboliche, altre, fluenti, che scorrono, inafferrabili nel loro multiforme e plurimo significato

di Graziella Atzori

 

Sono in ascolto di una nota aria di Gluck, “J’ai perdu mon Eurydice”, “Ho perduto Euridice”, che tradotta in italiano diviene “Che farò senza Euridice?”. Fuor di metafora, la domanda suona così: che farò senza l’anima? Secondo la tradizione stilnovistica infatti, la donna è personificazione dell’anima (Beatrice), guida verso il Divino e la piena realizzazione dell’umano.

La voce che mi avvolge è quella di Maria Callas, mito nel mito. Nulla potrebbe introdurmi meglio a una rivisitazione dei Sonetti a Orfeo, composti da Reiner Maria Rilke nella piena maturità poetica, di getto tra il 2 e il 23 febbraio del 1922, in modo quasi chiaroveggente direi, misterioso, com’egli ebbe a scrivere.

L’edizione di cui dispongo ha una veste modesta, si tratta di una economica Newton Compton Poesia, Roma 1997, ma la traduzione di Mario Ajazzi Mancini (critico e psicanalista di scuola lacaniana) è preziosa, attenta a effondere il canto, a non perderne il “respiro”.

E Rilke veramente ha “ricopiato” il respiro di un antico dio, dimenticando se stesso: “Un dio può. Ma, dimmi, come può/un uomo seguirlo con l’esile lira?/[…]impara/a scordare che hai cantato. Scorre via./Cantare in verità è un altro respiro./Un respiro a nulla. Un soffiare nel dio. Un vento.” (da Sonetti a Orfeo, tradotti da Mario Ajazzi Mancini, ed. Newton Comton, Roma 1997, sonetto III, prima parte, p.31). I versi contengono l’intento programmatico, il punto di vista del poeta, ma svelano il senso profondo di ogni ispirazione, di ogni poesia. L’intento è riuscire a “soffiare nel dio”, essere partecipi del “suo” vento, essere dicitori di parole non proprie, venute dall’empireo, o dall’inconscio se più vi piace. Parole che sorpassano la ragione discorsiva, simboliche, altre, fluenti, che scorrono, inafferrabili nel loro multiforme e plurimo significato.

Ardua impresa. Io, riuscirò a penetrare questo vento? Vento ovvero pneuma, ruah, spirito. Mi introduco volutamente nel contesto del poetare rilkiano poiché, come in altro ambito avviene, e alludo agli esperimenti scientifici compiuti in laboratorio, la presenza dello sperimentatore diviene elemento essenziale, interagisce con l’esperimento stesso. Nulla è neutrale, dobbiamo diventare partigiani per essere, paradossalmente, obiettivi. Riuscirò a vivere – vivere, sentire, non comprendere meramente con l’intelletto – vivere il senso del tutto per arrivare… al nulla beatifico? Un nulla che è tale perché non si attacca a niente e, contraddizione in termini, è… il tutto che scorre. Il vento-nulla non è arrestabile, non è catturabile.

Riuscirò? Gli animali poterono, rivela il mito dell’orfismo. Incantati dalla lira di Orfeo le bestie (i cavalli del carro platonico?) lo seguirono con la semplicità dei “poveri di spirito”, ai quali notoriamente appartiene il regno dei cieli. Devo farmi “animale”, simile ai bue e all’asino nella capanna natalizia, ritrovare lo stato edenico, scansare e superare i limiti di una ragione accaparratrice che si illude di conoscere il bene ed il male dividendo in due l’unità dell’esistenza, dimenticando la loro suprema sintesi. Come gli animali devo saper tacere e pormi in ascolto: “E tutto tacque. Eppure in quel tacere/s’avanzò nuovo inizio, cenno e mutamento.” (op. cit. sonetto I, parte prima, p. 27).

Dovrò ascoltare il significato del mito, essere il mito.

Orfeo è deciso a scendere negli inferi, nell’oltretomba. È intriso di morte, non ancora detentore del segreto del trascorrere e rinascere in ogni istante, con leggerezza confidente. Rivuole per sé Euridice, la donna amata simbolo della vita perenne, deceduta in seguito al morso di un serpente. Egli spera di riportarla nel mondo consueto nel quale ci si saluta e sempre ci si perde. Plutone dà il benestare all’impresa, a patto che Orfeo, nell’Ade, non si volti indietro per accertarsi che la sposa lo stia seguendo. L’uomo non sa resistere, compie quel gesto fatale e voltandosi perde Euridice. Morale: se ti fermi nel passato e rifiuti di vivere “ora”, con la fiducia e la certezza che niente è perduto, poiché il passato è la sostanza che senza fine si rinnova, sei perduto, sei morto, e la tua morte interiore muterà ogni gioia in fiele.

Orfeo, divenuto misogino, viene sbranato dalle Baccanti. Ma la sua testa e le sue labbra, trasportate dal mare fino a Lesbo, continuano e continueranno a cantare. Il poeta martire sacrificato e divinizzato vive ovunque, del suo canto è imbevuto l’universo.

Rilke riprende il mito, anzi ne è afferrato. In quel periodo della sua esistenza è ospite di un’amica molto cara, Baladine Klossowska, presso il castello di Muzot, in Svizzera. Sta elaborando un lutto, la morte di Wera, una ragazza appena diciannovenne, ballerina, stroncata dalla leucemia. Come Euridice, che fatica a camminare per la ferita inflittale dal serpente, anche Wera prima della sua tragica fine non riesce quasi più a muoversi, diventa massiccia, drasticamente prende la decisione di interrompere le lezioni di danza. Si offre con passività dolente alla sua sconfitta, alla fine, al mistero.

I sonetti del poeta sono il monumento funebre per lei. Contengono la psicologia della melanconia, una discesa negli inferi e nello strazio. Rilke assume su di sé il peso di ogni perdita e di ogni morte, per tentare la rinascita.

Esiste una parola, in tedesco, che può essere tradotta con l’espressione “scorrere via” e indica l’impermanenza, la stessa impermanenza cardine della dottrina del Buddha, la stessa che dà significato al “transumanar” di Pasolini. Il vocabolo è “Vergaenglichkeit”: tutto passa, in apparenza non ci resta che vuoto. A tale dolore si apparenta sempre l’altro, quello della leopardiana “rimembranza acerba”.

Sì, tutto ciò è contenuto nei sonetti a Orfeo, ma non è tutto, anzi ne è solamente il preambolo e ce li rende comprensibili. Orfeo-Rilke è il dio del rimpianto ma soprattutto è dio-poeta della metamorfosi, immette nella Vergaenglichkeit, nell’impermanenza, un “vento” di rinascita. Il vento è insito nella parola poetica, ne è la musica, la quale permane eternamente, impregna il tutto proprio nel momento in cui il dio viene smembrato, disperso, “trasumanato”. Infatti: “Non ergete lapidi. Lasciate fiorire/la rosa in suo onore ogni anno./Perché è Orfeo. La sua metamorfosi/in questo e in quello.” (op. cit. sonetto V, prima parte, p. 35). E ancora: “Sopra scorrere e mutare,/più vasto e più libero,/dura il tuo preludio,/dio con la lira.” (op. cit. sonetto XIX, prima parte, p. 63). “O dio perduto! Tu, traccia infinita!/Solo perché alla fine un feroce nemico ti sparse,/possiamo adesso ascoltare, essere una bocca di natura.” (op. cit. sonetto XXVI, prima parte, p. 77).

L’apparire, la rappresentazione del mondo rimanda a un altro luogo, a un altro spazio, tutti interiori, conduce ad esperire e a possedere l’esteriorità per renderla identica all’essere intimo. Rilke vuole trasmutare il mondo portandolo in sé, nella conoscenza che è fruizione e consumazione felice. “Danzate l’arancia […]L’avete posseduta./E deliziosa in voi s’è convertita./…create affinità/con la pura buccia che si nega,/con il succo che la riempie, felice!” (op. cit. sonetto XV, prima parte, p. 55).

Felicità, la melanconia s’è convertita nel suo opposto, in un processo alchemico nel quale il dolore è funzionale alla gioia. Il dolore è passeggero, la gioia dell’esperienza accompagnata dalla sapienza raggiunta non passa mai. La gioia è consapevolezza del passaggio del dio. Musica del dio è la corsa del cavallo, così la presenza e lo sfiorire dei fiori, che ritornano.

Il poeta a questo punto inserisce nell’opera una dura critica alla civiltà delle macchine. Queste umiliano il divenire-essere di Orfeo, snaturano lo “spazio-mondo”, attaccano le sue “durevoli forze”. Si tratta di una posizione critica ante litteram, preveggente, oggi condivisibile. Le macchine riescono ad atrofizzare i nostri sensi, attutendo la sensibilità esercitano un occulto potere sulla nostra coscienza. Non v’è soluzione di continuità tra uso e abuso della tecnologia, almeno così sembra essere per l’homo faber. L’uso scivola drammaticamente nell’abuso. Ed è perciò che abbiamo un immenso bisogno di poesia, lo ha ben compreso Heidegger, come antidoto e correttivo, strumento di riappropriazione di noi stessi. Come libertà.

“Noi siamo questo andare alla deriva,/e per questo abbiamo valore,” (op. cit. Sonetto XXVII seconda parte, p.131). Saper morire diviene il nocciolo di tutta la meditazione dei sonetti, di tutta la comprensione dell’orfismo. Saremo smembrati, ma dureremo. L’ebbrezza dei sensi comporta un annullamento, l’annullamento conduce all’interiorizzazione del sensibile, trasportato nel luogo dei morti e dell’eterno. Orfeo smembrato appare come la prefigurazione greca del Cristo morto e resuscitato.

L’ultimo messaggio vincente della terzina conclusiva suona in modo impareggiabile: “Se le cose terrene ti hanno dimenticato,/di’ alla terra silenziosa: io scorro./E all’acqua rapida, parla: io sono.” (op. cit. sonetto XXIX, seconda parte, p.135). Io sono: Ich bin. Bin, sono, è rimato con Sinn, senso. Il senso che ci salva, ovvero: Io sono ovunque. Come ovunque è lo spirito. Il poeta nomina l’Io superiore, il Sé trascendente individuale e insieme cosmico, la scintilla eterna che Orfeo, Cristo, Dioniso, Mitra hanno rappresentato e rappresentano.

Vi è certamente una risposta a quel canto ascoltato dalla voce divina di Maria Callas: che farò senza Euridice? Risposta: Euridice non è perduta, è dappertutto, Orfeo è dappertutto, io dappertutto, siamo tutti uno nell’altro, indissolubili e per sempre. “Comunione dei santi”, di chi ha compreso e consapevolmente accolto il dono della rivelazione.

Conclude il mito: Orfeo ed Euridice, rapiti in cielo, resuscitati passeggiano insieme nei Campi Elisi, nel mondo archetipico del più profondo desiderio universale e di ciascuno, inestinguibile.