D’Annunzio, la marcia su Trieste

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di Fulvio Senardi

 

D’Annunzio sì? D’Annunzio no? A Trieste fervono le discussioni, nel silenzio tombale dell’Accademia e delle Istituzioni di cultura, come se educare il Paese orientando il sentire comune (Gramsci avrebbe detto: la battaglia per l’egemonia) non fosse cosa loro. Al coro dei sì (aperto dal plauso di Casa Pound e di Forza Nuova) si è unito qualche scrittore, Claudio Magris sul Corriere, che rivendica il valore letterario del Vate e Pietrangelo Buttafuoco sul Fatto, affascinato dall’impresa di Fiume, una “Woodstock” ante litteram a suo dire, a tutto a merito del Comandante. No grazie dicono invece, oltre a mille e passa triestini firmatari di una petizione, Adriano Sofri sul Foglio, e Mauro Barberis, docente all’Università di Trieste, sul Blog del Fatto, con qualche sapido commento a proposito del Sindaco: “Di Piazza quando è visitato da un’idea non ce n’è per nessuno. Pensate che per informarsi sulla vicenda ha letto persino un libro su D’Annunzio, L’amante guerriero, chissà se inizialmente scambiato per un soft-porno”. Ma di che cosa effettivamente si tratta? Di una mostra, fortemente voluta dall’Assessore alla cultura Giorgio Rossi (che, quanto a competenze culturali …) e per la quale è pronta una somma esorbitante (in un momento in cui a Trieste ben altre sono le urgenze culturali, la Biblioteca Civica in primo luogo), e di una statua, di cui già sappiamo le fattezze. Erano necessarie? In verità, né l’una né l’altra.

Quanto alla mostra, va detto che di D’Annunzio conosciamo già tutto, perfino le più effimere e futili storie di letto anche grazie a Giordano Bruno Guerri, Presidente della Fondazione del Vittoriale, e curatore dell’evento triestino, cui dobbiamo il catalogo illustrato degli amori: La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele D’Annunzio, Mondadori, 2013, che è un modo abbastanza fatuo e pettegolo di avvicinarsi al personaggio.

E la statua, con cui le Istituzioni celebrano questa figura “esemplare”? In verità essa mistifica il personaggio e il ruolo che il Vate ha avuto nell’Italia di Vittorio Emanuele III: un D’Annunzio ripiegato sui libri con l’espressione irenica di un pensoso umanista (il Vate ha sicuramente vissuto anche momenti del genere, intendiamoci, ma sono, scrisse bene Salinari, le “pause” in un’esperienza di vita improntata ad una febbrile e spregiudicata volontà di affermazione) tradisce il messaggio di attivismo elitistico di cui ha voluto farsi portavoce a partire dal romanzo Il fuoco (“la parola del poeta comunicata alla folla”, scriveva in quel libro, “è un atto, come il gesto dell’eroe”), nel nome di una visione semplicistica del Superuomo nietszchiano nel quale si identificava pienamente, e in cui consiste il contenuto essenziale della sua predicazione.

Attivismo, vita agonistica, missione di conquista, nel privato (la “femmina”: “la giovinezza mia barbara e forte in braccio de le femmine si uccide”, declamava poco più che ragazzo), e nel ruolo di vate ufficiale dell’Italia in armi (si rilegga Il discorso di Quarto e l’oratoria interventista, con i suoi ripetuti inviti alla violenza contro i neutralisti, e di guerra). Italia invitata a lanciarsi, sulle orma di Roma, alla conquista del mare nostrum e, se possibile, di qualcosina di più (“Arma la prora e salpa verso il mondo” è la frase che riassume il contenuto politico della sua tragedia La nave, 1908, acclamata trionfalmente negli ambienti del nazionalismo che vi videro la consacrazione estetica della propria ideologia gerarchica e militaristica). Sarebbe stato più giusto dunque rispetto al personaggio, indubbiamente più vicino alle segrete intenzioni dei promotori (ma in pratica impossibile alla luce del politicamente corretto) rappresentarlo in posa istrionica, in piedi, che declama e arringa, così come amava porsi di fronte alle folle, che in fondo disprezzava (e odiava, se socialiste – si ricordi il fastidio per il “grigio diluvio democratico” espresso dal suo alter-ego Andrea Sperelli), ma di cui sapeva carpire l’anima, segnatamente nei settori in crescita della piccolissima borghesia nutrita di scarna cultura scolastica, con un’oratoria inebriante, con la gesticolazione febbrile e facendosi precedere – per straordinario intuito delle possibilità dei media – dalle amplificazioni giornalistiche che da un lato, in un primo momento (il D’Annunzio “romano”), crearono in lui un’icona di trasgressione e di scandalo, dall’altro, in anni più tardi, lo presentarono come il profeta di una Nuova Italia maestra di bellezza e fonte di grandi imprese virili.

L’acuto Ferdinando Martini, più volte ministro con Salandra e Giolitti osservava: “non può vivere senza réclame!” Inutile dire quanto la guerra potesse contribuire alla fama del personaggio: D’Annunzio, mettendo a repentaglio la propria vita (e quella degli altri), si cimenta in imprese di assoluto rilievo propagandistico, piuttosto nell’azzurro nei cieli che nel fango delle trincee, con il plauso dello Stato Maggiore che vedeva così circonfusa d’eroico la guerra italiana.

Ma, ipocritamente, il destrismo conigliesco degli stenterelli di città nostra, che lanciano il sasso ma nascondono la mano, non ha il coraggio dei suoi cattivi pensieri. Vestono la pelle d’agnello ma intanto mandano messaggi assai chiari, strizzando d’occhio ad ambienti consentanei (ai “camerati”, verrebbe da dire). Si dedica una scala di periferia a Mario Granbassi, specificando: “giornalista”, ma il cuore di chi ha voluto l’intitolazione batte, non tanto segretamente, per l’“eroe” caduto in Spagna nel 1939 combattendo per il franchismo contro la repubblica democratica; si esprimono, almeno inizialmente, paralizzanti perplessità sul manifesto proposto dal Liceo Petrarca per la mostra sulle leggi razziali senza dare giustificazioni se non un criptico invito a “muoversi con prudenza”, ed è voce dal sen fuggita, come si usa dire, che rivela nostalgie e simpatie inconfessabili. D’Annunzio, uno dei “cattivi maestri” del Fin-de-siècle e del Primo Novecento è stato, diciamolo chiaro, il portavoce di un’ideologia confusa e incoerente, eppure sostanzialmente di destra e la sua prassi politica, anch’essa scombinata e contraddittoria, è in linea con le tendenze conservatrici o reazionarie della sua epoca. Chi si assomiglia si piglia, dice l’adagio, e da qui l’amore del nostro Comune per un personaggio che, nelle varie narrazione che la destra, nelle sue molteplici metamorfosi, ha sciorinato nell’ultimo secolo appare invece un eroe ardito e altruista, risoluto a battersi per la grandezza d’Italia, un genio senza ombre se non quelle prodotte dagli invidiosi.

Non che la letteratura italiana non gli debba alcune grandi opere destinate a restare, com’è doveroso aggiungere: in campo narrativo Il piacere del 1889 segna una data importante, con quel suo protagonista Sperelli, dandy sprezzante, edonista ed esteta (“l’ideal tipo del giovine signore italiano nel XIX secolo”), in cui è facile riconoscere una proiezione dello scrittore, che, guardando a Huysmans e a Flaubert, inventa un personaggio e modella uno spazio narrativo (ambienti raffinati, arte come terreno di ispirazione e tema prediletto, parole sceltissime e rare – “Divina è la Parola e il Verso è Tutto”) che la narrativa italiana, dove allora trionfava il naturalismo-verismo, non conosceva.

In poesia Alcyone, e non solo, contiene alcune delle liriche, sulla linea di un musicalissimo simbolismo nutrito di una memoria poetica frastornante per la ricchezza di riferimenti classici e moderni, con cui tutti gli studenti delle scuole italiane sono chiamati a confrontarsi (ma, attenzione, a fianco della sensuale passeggiata della Pioggia nel Pineto, con le studiatissime sinestesie e lo “spartito” perfettamente accordato, c’è la celebrazione della ferinità dell’eroe “superumano” senza freni né legge se non la sua stessa volontà, Il centauro). E Il notturno, per quanto “ininterrotta autoglorificazione” (Alatri) sa modellare una prosa inedita, un incanto di stile ancorché, sostenne Pancrazi “di natura speciosa”, che nuovamente impone come maestro, anche fra quei giovani che ormai lo contestavano, lo scrittore più che cinquantenne.

Ma non è questo il punto. Molti sono gli autori di indiscutibile grandezza – Louis-Ferdinand Celine, Ezra Pound, ecc. – ma dal messaggio irricevibile per la moderna coscienza democratica. D’Annunzio tra di essi. La sua visione della politica – confusa e improvvisata ma tuttavia alimento delle velleità di protagonismo anche sul piano civile – si nutre dei motivi dell’elitismo di fine secolo e coniuga, è l’epoca di Gustave Le Bon, nazionalismo e demagogia, spiriti autoritari e attrazione per le folle (l’Altro ostile da dominare), anti-parlamentarismo e vagheggiamento di nuove gerarchie, meglio se in uniforme e medagliate. Sullo sfondo di un perentorio, ossessivo e narcisistico “culto di sé”.

Ciò che conta, sulla scena mondana, sui podi dei comizi o sugli scranni del Parlamento (dove riesce a farsi eleggere nel 1899 nonostante i concetti chiaramente espressi qualche anno prima nell’articolo La bestia elettiva), è far parlare di sé: assenteista pressoché totale, sa che anche Montecitorio può tornar buono per il gesto clamoroso e passa quindi nel marzo del 1900 dai banchi della destra all’estrema sinistra, declamando: “vado verso la vita!”.

Il periodo della Reggenza a Fiume, dove il Comandante (D’Annunzio appunto) pienamente dispiega le sue doti istrioniche (e rivela il suo dilettantismo) è quella fase della vita sulla quale richiamano costantemente l’attenzione coloro che vogliono rivendicare al personaggio apertura intellettuale e disponibilità a suggestioni politico-istituzionali perfino di “sinistra”, mentre conferma invece le sue profonde radici ideologiche. Il discorso sarebbe lungo, ma sintetizzo cose che tutti sanno (meno coloro che scelgono di non vedere): la celebrata Carta del Carnaro è farina del sacco di De Ambris e D’Annunzio ci mise solo lo stile, l’idea della Lega di Fiume – un nuovo “patto di Roma” per rivendicare i diritti delle nazioni che Versailles aveva calpestato – nasce da un’idea del poeta belga Leon Kochnitzky (con una segreta implicazione anti-jugoslava, nella speranza di fomentare insurrezioni anti-serbe, come messo in rilievo da De Felice). Quanto al nuovo ordinamento militare esaltato dallo stesso De Felice come espressione di un’utopia ugualitaria, basta scorrerne gli articoli per vedere come sempre e comunque l’ultima parola spettasse al Comandante (“ciascuna deliberazione del Consiglio militare può essere invalidata dal Comandante […], inappellabilmente”, articolo 14) che, mentre esalta il popolo di Fiume nei suoi discorsi dal balcone, lo governa con capricciosa mano di despota (lo mette perfettamente in luce l’episodio del cosiddetto Modus vivendi – un compromesso con il governo italiano che i fiumani erano propensi ad accettare – e che il “no” del comandante, che bloccò il plebiscito favorevole, fa invece fallire), varando perfino dure misure repressive contro gli oppositori (l’autonomista Riccardo Zanella, pure disponibile alla soluzione italiana per Fiume, ma secondo i modi e i tempi della diplomazia, dovette fuggire in Italia per salvarsi dal bastone legionario, non ancora in coppia, ma il matrimonio avverrà presto, con l’olio di ricino).

Per non dire del carattere generale dell’impresa, la prima sedizione nell’esercito italiano, con ufficiali e soldati che abbandonavano i reparti per unirsi al Vate, e che poi usufruirono dell’amnistia. Una “marcia” che non andò disgiunta da idee e velleità di replicarla su Roma (cosa che in effetti avvenne solo poco dopo). Scrisse De Ambris: “solo rifacendo l’Italia secondo i piani stabiliti, si potranno avere le forze che oggi mancano all’impresa”. Da qui un consiglio: “puntare su Roma”. Come sintetizza Alatri (nella migliore delle biografie di D’Annunzio, UTET, 1983, perché meno pettegola e più documentata, meno interessata alle lenzuola e più ai fatti, al contesto, alle idee) il D’Annunzio fiumano “ha cominciato a scavare la fossa allo Stato liberal-democratico”. Che poi sul Quarnaro vi fosse “festa”, gioiosa anarchia, fantasia al potere, edonismo sfrenato, gaudiosa invenzione di fogge e mode, rivoluzione estetica ed estetizzante, “baccanale sfrenato” come scrisse Koschnitzky (vedi Claudia Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume) non toglie né aggiunge alcunché a quanto detto.

Con la crescita del movimento fascista e in particolare dopo le elezioni del maggio 1921 vi fu chi vide in D’Annunzio, fra gli stessi seguaci del littorio, una possibile alternativa a Mussolini. E proprio nei mesi della “marcia su Roma” egli sperò addirittura di poter giocare un ruolo di “pacificatore” nell’Italia lacerata dalla guerra civile. Il prestigio del letterato era però altrettanto grande del suo confusionismo e delle sue incertezze e fu Mussolini a dire la parola decisiva.

Tramontata la stella del politico il Vate si ritira al Vittoriale, dove il Duce gli affianca il commissario, poi prefetto Giovanni Rizzo, con il compito di assecondarlo e controllarlo. Con l’”occhiuto carceriere”, così D’Annunzio, si crea un rapporto ambiguo, ma dove non manca la reciproca stima: Rizzo riferisce ogni movimento del Vate ai superiori e l’astuto recluso si serve di lui per far giungere a Mussolini, con fare quasi ricattatorio, le proprie richieste. Il regime sa peraltro assai bene come ammansire un personaggio tanto difficile: subito dopo il delitto Matteotti il Governo gli acquista per 200.000 lire il manoscritto della Gloria, nel 1925 il Regime lo nomina Generale della Brigata Aerea della riserva, mentre inizia, a spese dell’erario, la pubblicazione dell’Opera Omnia e l’ampliamento della sfarzosa dimora, il Vittoriale. Pur nella sostanziale consonanza ideologica D’Annunzio resta tuttavia per Mussolini un pericoloso rivale sul piano della rinomanza pubblica ed è questo a spiegare una certa reticenza ad esaltare il poeta nel corso di cerimonie ufficiali. Nel maggio del 1929 egli scrive sferzante al Duce: “Evitare con tanto difficile sforzo il mio nome nel celebrare le ‘radiose giornate di maggio’ […] mostra […] il malanimo e […] falsa la Storia”. Resta comunque, sovente riaffermata, l’ammirazione e la stima da parte del recluso del Vittoriale verso il padrone dell’Italia in orbace. Che tocca il culmine, con adesione totale ed entusiastica, in occasione della conquista dell’Etiopia, quando l’Italietta diventa imperiale. L’ultimo incontro a Verona, il 30. IX. 1937, vede l’abbraccio di Mussolini e D’Annunzio, apristrada l’uno protagonista l’altro della tetra avventura dell’Italia in camicia nera: se le testimonianze divergono sul contenuto del breve scambio di idee (D’Annunzio avrebbe sconsigliato il Duce dall’approfondire l’amicizia con la Germania di Hitler?) tutti concordano sul carattere sinceramente affettuoso dell’incontro, che è quasi il sigillo una vita. Meno di un anno dopo, il 1 marzo 1938, il Vate chiuderà per sempre gli occhi.

Personaggio interessante ed emblematico dunque, fin troppo ricco di chiaroscuri. Grande, a volte grandissimo scrittore. Spesso padrone della scena mondana, letteraria e perfino politica. Ma modello di retto sentire, di coerenza di pensiero, di valori civili, di sensibilità democratica? Certamente e indiscutibilmente no.

 

 

 

 

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Fulvio Senardi ha pubblicato nel 1989 per Laterza Il punto su D’Annunzio (e nel 1995 per Principato un’edizione commentata del Piacere), volume che, controcorrente rispetto all’acritica D’Annunzio-Renaissance di quegli anni, ha contribuito ad alimentare il dibattito con importanti messe a punto.