Wenders e l’angoscia del portiere

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di Stefano Crisafulli

 

Della solitudine del portiere di calcio in molti ne avevano già scritto, pensiamo a Stefano Benni nella sua poesia dal titolo omonimo o a Umberto Saba in Goal, con il numero uno che esulta da solo per la rete della vittoria, ma sull’angoscia del portiere di fronte al calcio di rigore non c’era ancora granché. Ci ha pensato Peter Handke a colmare questa lacuna nel 1970 con il suo thriller atipico che in italiano è stato tradotto Prima del calcio di rigore, ma che in tedesco è un po’ più lungo: Die Angst des Tormanns beim Elfmete (‘L’angoscia del portiere prima del calcio di rigore’). E grazie al sodalizio con un regista allora emergente, Wim Wenders, l’opera di Handke diventò nel 1971 anche un film con lo stesso titolo e con la stessa differenza di traduzione dal tedesco all’italiano. Perché il riferimento all’angoscia è stato tagliato? Forse per suggerire surrettiziamente che il tema centrale del film è, appunto, il calcio. Ma in realtà gli amanti del pallone non potranno che rimanere delusi: di sport si parla poco nel film di Wenders ed è, piuttosto, solo un pretesto per descrivere una parabola esistenziale delineata dall’Angst. Va precisato che il termine tedesco si traduce con ‘angoscia’ soprattutto in ambito filosofico, psicoanalitico e psichiatrico, mentre mantiene una pluralità di significati, compresa la paura, se usato in modo più generico e che Handke e Wenders, pur mantenendo l’ambiguità di significato, si riferiscono piuttosto all’angoscia che alla paura. Si ha paura, infatti, di un pericolo reale, mentre si è angosciati per qualcosa di indefinito, che spesso si identifica, dal punto di vista, ad esempio, della filosofia esistenzialista (vedi lo straniero di Camus o la nausea sartriana), con l’insensatezza della vita.

Ed è proprio questa sensazione di vuoto che pervade per tutto l’arco del film il protagonista di Prima del calcio di rigore, Josef Bloch (interpretato da Arthur Brauss), portiere professionista. Wenders lo mostra subito, nella prima sequenza, in azione sul campo di calcio. Il suo spaesamento esistenziale comincia già lì, quando, dopo aver subito passivamente un goal, si fa espellere per proteste. Da quel momento in poi, qualcosa si spezza dentro di lui, tanto che lo vediamo aggirarsi per la città (il film è ambientato inizialmente a Vienna), mangiare qualcosa, andare al cinema, prendere una camera in un hotel, sfogliare distrattamente una rivista, mettere una canzone al juke-box, flirtare con la cassiera del cinema, recarsi a casa sua, passarci la notte e così via, tutto senza un apparente significato interiore. Compreso l’atto criminale di uccidere la cassiera e poi, come da manuale del perfetto assassino, pulire gli oggetti toccati per non lasciare impronte. A quel punto comincia la seconda parte del film, ambientata in una località al confine tra Austria e Ungheria. Lì si è trasferito Bloch per cercare di far perdere le sue tracce e, nonostante la sensazione persistente di essere braccato, che però non si concretizza mai in un evento reale, continuano i suoi gesti senza peso esistenziale. Anche i dialoghi con le persone che casualmente incontra sono al limite dell’assurdo e dell’incomunicabilità. A fine film si chiuderà il cerchio quando Bloch va a vedere una partita di calcio locale e il portiere para un rigore, non dissipando, però, le sue inquietudini. In questo primo lungometraggio di Wenders (e nel racconto di Handke), quindi, ci sarebbero tutti gli stilemi di un noir, che però vengono volontariamente negati allo spettatore: il crimine non ha un movente preciso, l’assassino non viene scoperto e l’angoscia non cede spazio a una sua risoluzione. Un esordio, come si suol dire, folgorante.

 

Arthur Brauss