Ugo Guarino, l’artista che ci faceva pensare

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di Maurizio Lorber

 

Il mio maestro Decio Gioseffi colse fra i primi l’intelligenza figurativa di Ugo Guarino. Comprese che non era soltanto il disegnatore dei poliziotti cattivi – simulacri dell’ottusità del potere – ma un artista ironico e impertinente che rappresenta la nostra coscienza critica. Guarino con il suo candore smascherava la protervia dell’autorità e riassumeva con pochi tratti di pennarello un concetto o una dinamica complessa. Indro Montanelli se ne era ben presto reso conto e infatti espresse più volte il suo apprezzamento per le vignette del geniale illustratore nella sua rubrica quotidiana sul Corriere della Sera. Ma l’immagine efficace di Guarino celava un talento creativo che andava ben al di là dell’illustrazione. La mostra L’alfabeto essenziale di Ugo Guarino (a cura di Silvia Magistrali e Francesca Tramma), allestita nella Sala Scarpa del Civico Museo Revoltella nel 2015, lo pose perfettamente in evidenza. Il catalogo permise a un pubblico vasto di scoprire che dalle vignette per La Cittadella, alla collaborazione con il Corriere della Sera, all’impegno artistico e sociale accanto a Franco Basaglia, Guarino seppe guardare il mondo come soltanto gli artisti sono in grado di fare. Con la caricature, scoprì che ciò che nel discorso verbale è lento può essere riassumerlo dall’immagine con l’efficacia di uno slogan. Definito accortamente un “bimbo poeta”, tutta la sua opera è caratterizzata dalla ricerca di segni essenziali. Questa efficacia iconica non lasciò indifferente Franco Basaglia che accolse Guarino negli anni cruciali della sua riforma: gli strumenti del comunicare alternativi alla parola potevano divenire manifesto di libertà e strumento terapeutico.

Accanto all’opera dell’artista vi è un percorso sottotraccia nella vita di Guarino. Un itinerario all’interno di una stagione della storia nella quale gli slogan – coniati dallo stesso Guarino – “La Libertà è terapeutica” e “La verità è rivoluzionaria” sintetizzano, come le sue vignette, l’anelito di libertà che travolgeva l’Italia e l’Europa alla fine degli anni Sessanta. Poiché sorvegliare e punire – come recita un testo ben noto di Michel Foucault – allignavano ancora all’interno della società, una riforma democratica doveva essere attuata nel profondo delle istituzioni e, secondo Guarino, prima di tutto nelle nostre menti. Non a caso le sculture I testimoni – ottenute assemblando mobili consunti e vecchi infissi dell’istituzione manicomiale che si andava smantellando – furono un manifesto di denuncia contro la violenza inflitta ai degenti. Questi spettatori silenti vennero esposti nel 1975 a cura di “Psichiatria democratica e critica delle istituzioni”: la fantasia posta al servizio dell’impegno civile come qualche anno prima aveva fatto l’artista francese Jean Dubuffet.

Il fatto che tutte le opere di Ugo Guarino pongano sempre l’osservatore a confronto con la creatività al servizio di un’idea critica e mai a quello di un’ideologia è un aspetto che emerge chiaramente in tutta l’opera di Guarino. In sintesi due sono le direttrici interpretative che ci permettono di mettere a fuoco la figura e l’opera dell’artista triestino. La prima è il tema del potere. Dai beceri poliziotti ritratti ne La Cittadella ai medici crudeli raffigurati mentre applicano, con inumanità “scientifica”, il loro sapere, Guarino si appella sempre a un umanesimo calpestato dall’anonimato di una divisa o da un malinteso ruolo istituzionale. Ma la disumanizzazione non appartiene solo alla psichiatria (nel 1970 fu pubblicato in Italia il testo di Thomas Szarz intitolato Disumanizzazione dell’uomo. Ideologia e psichiatria) poiché s’insinua, giorno dopo giorno, nel nostro quotidiano attraverso la meccanizzazione: è il secondo tema portante dell’opera di Guarino. Molto soggetti, sia pittorici che scultorei, che ricordano gli uomini macchina di Oskar Schlemmer, scenografo al Bauhaus, sono un invito a riflettere sui rischi dell’alienazione che comporta il mondo della tecnica.

Guarino inventa con le sue opere – pitture e sculture – un genere nuovo che appartiene all’ingegneria fantastica. Sono i “robot” che Silvio Ceccato, ingegnere cibernetico rubato alla filosofia, aveva visto nell’atelier-laboratorio di Ugo Guarino in viale Bligny a Milano nel 1972. Ceccato, come noi, rimase affascinato da questi automi impassibili, composti saldando e imbullonando scocche e serbatoi, fino a trarne dei corpi umani o di animali: «E confesso che, uscito in strada l’occhio così caricato cercava e trovava nei passanti, non più la testa del cavallo o della volpe, ma il serbatoio, quel certo serbatoio della serie delle Officine Meccaniche Tebaldi, di Monza».

La laconicità di Guarino sulla sua opera sembra trovare un adeguato corrispettivo nelle sue composizioni di inquietanti umanoidi. Il Cavaliere nero, alto due metri e trenta che ci sorveglia silente dietro la corazza meccanica, i giunti, la celata, per usare ancora le parole di Ceccato, esibisce un’anima impenetrabile: «ne sorge un genere che non esiterei a definire drammatico».

Un artista non è mai un’isola ma si lega in maniera inestricabile al suo mondo e le testimonianze raccolte nel catalogo L’alfabeto essenziale di Ugo Guarino ci permettono di ripercorrere non solo la vita e il lavoro di Guarino – da Trieste a Milano, Parigi, New York e ritorno – ma le vicende dell’Italia del dopoguerra e del miracolo economico. Un mondo che l’artista triestino seppe rappresentare smascherando quanto di falso, ipocrita e vuoto vi era nella retorica politica e nella fiducia incondizionata riposta nella scienza disumanizzante. Quando, nel 1968, si accinse a riscrivere per immagini il libro Cuore, Dino Buzzati, nella prefazione, scrisse che se in un primo momento avremo difficoltà a riconoscere i personaggi del libro poi, inesorabilmente ci renderemo conto che sono «ritratti veri. Veri, quindi cattivi. Perché nulla al mondo offende più della verità». L’inedito materiale artistico e fotografico – stupende le foto dell’artista al lavoro nelle officine Tebaldi – presente nel catalogo, messo a disposizione da generosi amici, avveduti collezionisti e dall’inesauribile fondo archivistico della Fondazione Corriere della Sera, svela al lettore attento che Guarino non è soltanto l’allegrone che, con due tratti di penna, fa scoppiare la risata. Come scrisse Decio Gioseffi, se osserviamo più attentamente le sue opere forse gli vorremo meno bene ma lo ammireremo molto di più. Oggi, nell’epoca della tecnica senza limiti, nella quale sta diventando ininfluente tutto ciò che conferisce una prospettiva critica sulla società e sulle nostre certezze, scopriamo di avere bisogno di Ugo Guarino più di allora.

 

U. Guarino, Snoopy, 1968-1972, acciaio verniciato a fuoco