8 MARZO Davanti Palazzo Pitti

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La storia di Anna Maria Ichino

di Nicola Coccia

 

Gli Ichino vengono dal Piemonte. Si mossero al seguito del re, ai tempi del trasferimento della capitale a Firenze, fra il 1865 e il 1870. Il capostipite aprì uno dei primi negozi di carta da parati. Si sposò. Ebbe cinque figli. Il primo maschio, Antonio, padre di Anna Maria Ichino, nata a Firenze nel 1912, morì appena tornato dalla guerra, per una forma di meningite. Anna Maria aveva 7 anni. La sorella maggiore, Adriana, 16 e il fratello Piero 14. Andarno ad abitare con la mamma Cordelia e i nonni a Vangile, nel comune di Massa e Cozzile, in Valdinievole, in una bella villa costruita nel ‘500. Alla morte dei nonni materni Cordelia ereditò  una serie di terreni, quattro fattorie, un mulino con frantoio e abitazione con 27 stanze e un olificio. Nel 1935 vendette i suoi ultimi cinque poderi e partì da sola, a 55 anni, per l’Africa portoghese alla ricerca di un nuovo Eldorado

Anna Maria Ichino tornò a Firenze, in casa dello zio Silvio, l’ultimo degli Ichino che aveva gestito il negozio di carta da parati, rimasto vedovo e senza figli. Alla morte dello zio, con i mobili di casa e cinquantamila lire di eredità da dividere col fratello Piero, prese in affitto un grande appartamento in piazza Pitti 14. Dalla strada la casa sembrava essere un terzo e ultimo piano. In realtà era sì al terzo piano, ma disposta su tre livelli. Al primo c’erano quattro camere, un enorme salotto, due bagni, uno dei quali spaziosissimo con vasca, e un ripostiglio. Al secondo livello c’era solo la cucina. Grandissima. Accanto al bel camino si trovava un sottoscala utilizzato per accatastare la legna e, più in là, una dispensa. Attraverso una piccola scala interna si arrivava al terzo livello. Qui c’erano altre tre stanze, di cui una grande sala da pranzo e il bagno. Proprio dalla sala da pranzo si accedeva a una spettacolare terrazza che dominava i tetti di Santo Spirito, del Carmine e di piazza Pitti. Dal 1938 al 1944 in casa di Anna Maria sono passati decine e decine di antifascisti ed ebrei, studenti e professori, aristocratici e operai, artisti e intellettuali, medici e crocerossine, poeti e scrittori. Era il passaparola che faceva arrivare in piazza Pitti l’amico dell’amico. Qui si sono incrociate decine e decine di vite, ma anche storie, a volte straordinarie.

Orietta Alliata, figlia del duca di Salaparuta, proprietario della famosa azienda vinicola siciliana, è stata una delle prime persone a trovare rifugio e ospitalità da Anna Maria. Con lei è rimasta tre anni. Anche il suo fidanzato, e poi marito, Giovanni Guaita, passava più tempo in piazza Pitti che a casa propria. Orietta, Giovanni e Anna Maria diventarono amici. Di notte, insieme ad altri giovani, andavano a scrivere sui muri: “Pane, pace e libertà”.

Nell’ottobre ’43 nacque Paolino. Il padre non lo volle riconoscere, ma la mamma, Anna Maria Ichino, lo desiderò con tutte le forze. Infischiandosene delle convenzioni e dei pregiudizi. Poteva percorrere altre strade, ma da cattolica, scelse la vita. In quel momento, drammatico per lei e per Firenze, intravide la fievole luce della speranza. E tirò tre schiaffi al padre del bambino quando al neonato impose tre nomi: Paolo, Libero, Benvenuto. Era lo straordinario messaggio riservato a un uomo appena nato, al quale augurava il bene più prezioso: la libertà. Una inestimabile ricchezza e non solo in tempi di dittatura, come in quegli anni. «Anna Maria mostrò subito di essere indipendente. Oggi lo sono tutte, ma allora una donna che si accollasse la responsabilità di fare la ragazza madre senza vergognarsene era una cosa molto rara», ha raccontato Manlio Cancogni.

Carlo Levi arrivò nella casa di Anna Maria Ichino, in piazza Pitti, quando Paolino aveva un paio di mesi. Nacquero delle voci. Levi, però, non era il padre del piccino. Anche se Anna Maria, più tardi, arriverà a desiderarlo. Anzi, nei momenti di tristezza e nostalgia racconterà a qualche amico che Carlo Levi era proprio il babbo di Paolino. Con l’arrivo di Carlo Levi quell’appartamento cominciò a diventare sempre più frequentato. Tutti volevano conoscere Levi. Tutti volevano parlarci. Levi era una sirena. Parlava con estrema calma. Convinceva tutti. Affascinava tutti. Anche Anna Maria Ichino rimase incantata da quest’uomo che a poco a poco diventò il padre putativo di Paolino. Se ne accorse subito Maria Luigia Guaita, una staffetta partigiana. «In quei mesi Anna Maria fiorì improvvisamente come una pianta i cui germogli fossero stati a lungo tenuti lontani dal sole».

In quella casa Carlo Levi  cominciò a scrivere Cristo si è fermato a Eboli, il diario del suo confino prima a Grassano e poi a Aliano, in provincia di Matera. Cominciò a scrivere con un lapis, pagina dopo pagina, senza mai un ripensamento, una correzione. E Anna Maria batteva il testo con la macchina da scrivere. Pagina dopo pagina. Ma non sempre potevano lavorare la sera. A volte mancava la corrente elettrica. A volte non avevano mangiato a sufficienza. I tedeschi occupavano la città. Gli Alleati bombardavano gli scali ferroviari per impedire i rifornimenti. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. La casa di Anna Maria Ichino era intanto diventata la sede clandestina del Comitato di Liberazione. Qui si riuniva la commissione stampa, incaricata di preparare un giornale, La Nazione del Popolo, da far trovare ai fiorentini dopo vent’anni di dittatura. Del comitato facevano parte cinque uomini: il  dottor Carlo Levi, azionista, il dottor Bruno Sanguinetti, comunista, il  professor Vittorio Santoli, liberale, il dottor Amerigo Gomez, socialista, e il professor Vittore Branca, democristiano. In quella casa arrivavano comandanti partigiani, ma anche amici come Manlio Cancogni, Carlo Cassola, Eugenio Montale, Cesare Fasola che in quel tempo si preoccupava di salvare le opere d’arte, il conte Sandrino Contini Bonacossi, gli architetti Giovanni Michelucci, il maestro  socialista Alberto Albertoni, Giacomo Devoto, il pittore Giovanni Colacicchi. Passava  anche Paola Olivetti, ex moglie di Adriano, l’industriale delle macchine da scrivere, e compagna da dodici anni di Carlo Levi.

Pochi giorni dopo la Liberazione di Firenze, avvenuta l’11 agosto ’44, in quella casa apparve una terza donna, destinata a diventare la compagna di Carlo Levi. Era Linuccia Saba. Ce la portò lo stesso Levi. Viaggiava con un documento parzialmente falso. Era una carta di identità rilasciata dal Comune di Firenze il 22 ottobre 1943. La foto la ritraeva con un impermeabile chiaro, alla Audrey Hepburn, abbottonato fino al collo, ma dal quale spuntava un altro pezzo della sua femminilità: un foulard. False erano le città di nascita (Sassari) e di residenza (Napoli). False, ma credibili, perché già liberate. Vera era la sua data di nascita. Vero l’essere “coniugata Giorni”. Linuccia aveva sposato il pittore Lionello Zorn Giorni nel 1941. Per aggirare le leggi razziali che impedivano agli ebrei di avere qualsiasi proprietà, il genero del poeta aveva firmato come direttore responsabile il catalogo della libreria Saba, a Trieste, per due anni. Falso era il nome della mamma, registrata come Lina Lupi, mentre in realtà era Carolina Wolfler. “Falso” anche il cognome di Linuccia, trascritto come Poli, perché da  quindici anni era stato cambiato in Saba. I Saba avevano lasciato Trieste dopo l’8 settembre del 1943 per una spiata. Per evitare l’arresto e la deportazione si erano rifugiati a Firenze, la città che Umberto Saba conosceva meglio. Nel 1903 era a Pisa per seguire lezioni universitarie. Nel 1905 era a Firenze «attratto e respinto dalla capitale culturale e letteraria di allora». Nel 1907 era in convalescenza all’ospedale militare di Monte Oliveto ancora a Firenze. Nel 1911 era tornato a Firenze in viaggio di  nozze con la moglie Carolina Wolfler, chiamata affettuosamente Lina. Con il denaro ricevuto in regalo dalla zia fece pubblicare il suo primo libro intitolato Poesie. L’anno seguente fece stampare dalla tipografia che pubblicava La Voce, il suo secondo libro, Coi miei occhi, sempre a proprie spese. Ci venne tante volte anche «per correggervi un po’ la mia lingua di triestino, più tardi per divertimento». I Saba a Firenze avevano cambiato rifugio undici volte. Poi tutti e tre finirono nell’appartamento di Anna Maria Ichino.

In quella casa Saba ritrovò la sua vena poetica. Riprese a scrivere. Raccontò della piazza, di ciò che vedeva dalla finestra. Parlò della guerra, dei fascisti, dei tedeschi che gli  avevano portato via tutto, della lotta di Liberazione, delle lunghe file davanti alle botteghe vuote, della casa ospitale che lo accoglieva di fronte a Palazzo Pitti. Sono le cinque poesie raccolte sotto il titolo 1944. Nella casa di Anna Maria, Saba superò “L’amara dolcezza della vita” della quale aveva parlato in una lettera a Soffici.  E alla Ichino dedicò due scorciatoie. In una dice : «La feroce Ichino crede – come Dante –  alla Giustizia. Quando ne parla (e ne parla spesso) il suo volto – altrimenti sereno – diventa la più nuda, la più violenta, la più tragica, la più appassionata maschera dell’Ingiustizia, che si sia mai offerta all’estro e alla matita di un pittore». Il poeta aveva cominciato a lavorare per la radio dove recitava le sue poesie. Ma dopo qualche trasmissione gli chiesero di sceglierle, ma non di leggerle perché qualcuno si era lamentato del suo accento triestino. Così, dopo quattro mesi di permanenza in casa di Anna Maria, amareggiato, partì per Roma. In piazza Pitti rimasero “le due Line”. Nel febbraio ’45 il rapporto fra Anna Maria e Carlo Levi, cominciò a incrinarsi. Il legame si spezzò  in aprile, quando Levi si trasferì a Roma per dirigere L’Italia Libera, il giornale del Partito d’azione, al quale aveva collaborato Piero Calamandrei durante la clandestinità e che era stato diretto anche da Leone Ginzburg.  Anna Maria andò a Roma a trovare Saba, ma con la speranza di incontrare Carlo Levi. Linuccia, invece, si divise fra Trieste e Roma. Con Levi sbocciò un amore durato fino alla morte dello scrittore torinese. Linuccia ne fissò anche la data di inizio: febbraio-marzo 1945. «Anna Maria era partita per Roma e noi – scrive Linuccia in una lettera a Carlo Levi – eravamo ancora molto estranei. Quella sera,  per la prima volta, ti ho sentito più umano, meno infrangibile e ti ho cominciato a voler bene».

La figura di Anna Maria Ichino – morta, sola, – il 3 giugno 1970, per una emorragia cerebrale all’età di 58 anni –  è riemersa dopo la pubblicazione del libro L’arse argille consolerai: Carlo Levi dal confino alla Liberazione di Firenze, edito da Ets (v. Il Ponte rosso n. 42 del febbraio 2019). Se n’è parlato durante la Giornata della Memoria che gli Uffizi hanno dedicato a Carlo Levi. Neanche due mesi dopo, il 9 marzo 2018, il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, e il sindaco di Firenze, Dario Nardella, hanno intitolato ai lati di palazzo Pitti, due piazzette: una a Carlo Levi e l’altra ad Anna Maria Ichino. Proprio di fronte alla casa di piazza Pitti 14.

 

 

Nicola Coccia

L’arse argille consolerai

Carlo Levi dal confino alla

Liberazione di Firenze

attraverso testimonianze,

foto e documenti inediti

Edizioni ETS, Pisa 2018

(seconda edizione)

  1. 318, euro 18,00