Paolo Gioli, un veneto del Po

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Un autore fuori dal coro

di Paolo Cartagine

 

Paolo Gioli, nato a Rovigo nel 1942, verrà ricordato come un autore fuori dal coro.

Aveva iniziato a dipingere e, dopo un soggiorno a New York alla fine degli anni sessanta, tornato in Italia (a Roma, poi a Milano) si era dedicato alla fotografia e al cinema d’avanguardia. Nei primi anni ottanta il carattere schivo lo aveva riportato nella sua terra d’origine alle Foci del Po, a Lendinara dove ci ha lasciato il 28 gennaio scorso, sempre impegnato a proseguire, nell’autonomia e nella libertà d’azione che si era ritagliato, le sperimentazioni di arte visiva che gli hanno dato fama internazionale.

Decisioni controcorrente, al contempo misurate, eleganti e composte che hanno definito la sua rappresentazione nel mondo e del mondo caratterizzando il suo vasto e riconoscibile corpus iconografico. Molteplici le esposizioni in sedi pubbliche e private (fra cui il MoMA di New York e il Centre Pompidou di Parigi) in Italia, Europa e America dove aveva conosciuto il gallerista triestino Leo Castelli.

Al contrario della maggioranza dei suoi colleghi e amici (tra i quali Mulas, Dondero, Ghirri) – intenti a rinnovare la fotografia italiana rimanendo all’interno della “fotografia diretta” finalizzata a raccontare eventi e situazioni reali di cui gli autori erano stati testimoni – Gioli si era invece incamminato a testa alta su una differente e più impegnativa strada, quella della “fotografia artistica”. Una modalità espressiva in cui lo spazio-tempo catturato dallo scatto diviene materia prima per elaborazioni grafico-concettuali avulse da funzioni documentali; l’immagine originaria è dunque un pretesto per costruire, con materiali sensibili alla luce, rappresentazioni ex-novo, spesso in forma ibrida unendo fonti e materiali diversi.

In tale contesto – nato dal collage delle avanguardie di inizio ‘900 – Gioli si distingue per la specificità delle sue manipolazioni frutto di vari accorgimenti da lui inventati. Agiva con camerae obscurae autocostruite dotate di foro stenopeico (minuscola apertura per l’ingresso della luce) che generavano immagini dai contorni pastosi. Oppure faceva scorrere la pellicola durante la ripresa generando immagini deformate (fotofinish) in macchine fotografiche che aveva svincolato dal funzionamento standard imposto dal fabbricante. Di rilievo la post-produzione con le Polaroid di grande formato, «un sorprendente mezzo per allargare ulteriormente la mia ricerca sulla fotografia istantanea mediante travaso dello strato sensibile su supporti materici diversi dall’originale, come carta da disegno ruvida o tela per ottenere superfici tridimensionali», oggi di fondamentale importanza nella fotografia contemporanea. Le accostava spesso ad altre ottenute con tecniche analogiche distinte (Cibachrome, serigrafie, litografie da materiale di scarto) sì da formare “quadri” che, «in base a un mio personale principio di coerenza formale», mescolano classicità e modernità iconografica in una rivisitazione di fitte ricerche su segni, movimento, scrittura e luce.

Infatti Gioli – riservato ricercatore della materia visiva e instancabile compositore di immagini – ci teneva a ribadire che «certamente ciò che mostro non è mai una cosa “colta al volo” come fanno i fotoreporter; la medito sempre per conto mio, ci torno sopra in più frangenti con pause lunghissime», cosicché «le mie immagini hanno la peculiarità di essere irripetibili, nel senso che il “fatto a mano” impedisce l’esatta riproducibilità insita invece nei processi tecnologico-industriali».

In particolare, si devono a lui molte ricerche innovative sui generi classici della Storia dell’Arte, attualizzando alla contemporaneità nudo, centralità del volto e del corpo, natura morta e paesaggio. Intendeva la fotografia e il cinema come nuovi strumenti di lavoro con i quali misurare e rinnovare i codici dell’arte, a partire dalla riscoperta e dall’uso radicale del foro stenopeico quale principio fondante della fotografia, ovvero «punto di vista ideologico oltre che operativo del gesto del riprendere “povero”».

Un discorso a parte meriterebbe il suo modo di fare i film, nei quali è sottesa «la comune radice con la mia fotografia: fotogrammi manipolati, assemblaggi, riprese stenopeiche con uso di mascherini e stop-motion.» Erano ripartenze dalla cronofotografia dei pionieri Marey e Muybridge «con al primo posto l’uso di una cinepresa-laboratorio che ho realizzato sulla base della prima cinepresa di Lumière» che, così congegnata, costituisce un unico dispositivo che assomma quattro funzioni: ripresa, sviluppo e stampa della pellicola, proiezione.

Alcune parole chiave riassumono il suo modus operandi: deviazioni dalle norme, riscoperta di procedimenti trascurati, utilizzo inusuale di procedure tradizionali, disconoscimento di tecniche non in sintonia con la sua espressività, rifiuto dell’impiego esacerbato di accorgimenti tecnologici.

Almeno tre i punti nodali delle sue scelte: la “inversione” di marcia necessaria per rifuggire dalla presunta oggettività della registrazione meccanica della fotografia e del cinema; lo “sdoppiamento” tra irrazionalità dell’immaginazione (ideazione) e concretezza operativa (realizzazione); la “coazione a ripetere”, che in lui non implicava ricopiatura o riproposizione di cliché ma ricerca di alternative e varianti. Un intreccio indispensabile che lo ha spinto a riflettere sul mutare delle proprietà e delle funzioni dei segni durante la preparazione dell’opera, sulle regole del caso nelle realizzazioni manuali, sulla potenzialità comunicativa dei «miei manufatti artigianali nel loro insieme, storie inventate e letteralmente costruite», e a interrogarsi criticamente sui propri obiettivi, limiti e capacità.

Paolo Gioli non era dunque solo tecnica.

Tutte le sue opere nascondono un segreto, collocato nel posto più visibile, similmente alla Lettera rubata di E. A. Poe. È l’insopprimibile bisogno di ribadire la sua presenza fisica nelle opere che andava eseguendo, lasciando tracce dell’inerente manualità costitutiva (quali segnature, apparenti incongruenze, vuoti, punti allungati, disallineamenti, lievi scostamenti e raffinate imprecisioni grafiche).

Pertanto, la meta non era la foto o il film, ma il cammino che gli era servito per idearli e materializzarli, tanto che per lui lo stile non era un fattore estetico esteriore, secondario o superficiale, bensì era una componente intrinseca e connaturata di ogni singola opera, e dunque inscindibile dalla stessa. I suoi lavori contengono, così, una cifra perfettamente riconoscibile che non ha uguali nel panorama artistico internazionale di quel periodo.

Forse riteneva che il suo modo di “pensare per immagini” lo conducesse più vicino alle verità nascoste delle cose di quanto non lo portasse il pensiero logico-razionale? o che nei suoi lavori ci fossero le risposte agli interrogativi che la sua esistenza si era portata dietro.

Non lo sapremo mai con certezza, ed è questo il fascino delle immagini nate dal suo istinto creativo.

 

 

Quando l’occhio trema

anni ’80