La suggestione della violenza

| |

di Gabriele Donato

 

Sessantotto buono, anni Settanta cattivi: questa la sintesi estrema di un modo di rileggere gli anni delle proteste collettive in Italia che viene periodicamente suggerito come efficace. In questa chiave, il 1968 andrebbe inteso come esplosione di creatività positiva, gli anni successivi – invece – come graduale negazione, violenta e distruttiva, dei significati innovativi della prima ondata di contestazioni giovanili. Fatto buono questo schema, il movimento animato spontaneamente dagli studenti sarebbe stato un attore positivo; al contrario, le organizzazioni politiche fondate successivamente dagli attivisti più radicali avrebbero rappresentato il contraltare negativo: veicolo il primo di immaginazione innovativa, le seconde di dogmatismo regressivo.

La prima cosa da fare per cercare di comprendere quell’epoca è accantonare questo schema dicotomico: esso, come tutte le rigide distinzioni che separano nettamente i buoni dai cattivi, serve a poco; invece di aiutarci a decifrare la complessità di quegli anni, ne riduce le dinamiche a una desolante parabola: dal sogno della fantasia al potere all’incubo degli “anni di piombo”. Le migliori premesse tradite dalle conseguenze peggiori: la generosa ingenuità degli esordi contrapposta alla feroce durezza degli sviluppi. In coerenza con questa lettura la violenza sarebbe venuta poi, a inquinare irrimediabilmente le istanze di un movimento originariamente pacifico e solo successivamente dirottato verso gli esiti più plumbei.

Semplificazioni di questo genere non portano lontano, e anche capovolgere semplicemente lo schema non aiuta; alcuni ne sono profondamente convinti: non solo quella del ’68 non sarebbe stata affatto una ribellione pacifica, ma la pericolosa radicalità delle sue istanze avrebbe funzionato come incubazione perfetta per tutte le forme di estremismo successivamente dispiegate. Queste due proposte d’interpretazione sono speculari: sia coloro che intendono salvaguardare la presunta innocenza del ’68, sia coloro i quali ne vogliono demonizzare il presunto oltranzismo antepongono le loro esigenze polemiche a quelle di un’analisi equilibrata dei fatti. Producono, in questo modo, ricostruzioni forse suggestive, ma fondate certamente su fragili basi fattuali.

Meglio procedere sulla base di una chiave di lettura più cauta di quelle vicende, ma non per questo banale: ritengo che la violenza politica dispiegata negli anni successivi non risulti comprensibile se non si operano collegamenti con le dinamiche che presero forma nel ’68, ma allo stesso tempo essa non ne rappresentò il portato inevitabile. Per dirla in altri termini, ciò che è accaduto prima ha condizionato ciò che è accaduto dopo, ma ciò non significa affatto che – per essere chiari fino in fondo – l’omicidio di Aldo Moro possa essere collegato all’occupazione di Sociologia a Trento attraverso un concatenamento lineare di cause ed effetti.

Le proteste studentesche che fra il 1967 e il ’68 percorsero il Paese si confrontarono da subito con il tema della violenza, se non altro per l’impatto che ebbe, sulla generazione di attivisti da cui furono animate, la morte a Roma – nella primavera del 1966 – dello studente socialista Paolo Rossi: colpito da un pugno nel corso di tafferugli esplosi alla Sapienza con militanti dell’estrema destra, il ragazzo entrò in coma e morì poche ore dopo. La drammatica vicenda mise la sinistra studentesca di fronte a un’evidenza: il movimento che allora iniziava a prendere forma avrebbe dovuto inevitabilmente fare i conti con avversari intenzionati a usare ogni mezzo per contrastarne la capacità d’iniziativa. La violenza, pertanto, comparve subito all’orizzonte: si trattava di una violenza agita da altri, voluta e praticata proprio per sbarrare la strada al movimento studentesco, ma capace ciò nondimeno di condizionare – con la sua presenza incombente – le discussioni nel corso delle quali quel movimento decideva i propri orientamenti.

D’altro canto, non sarebbe stata quella neofascista l’unica violenza con la quale le lotte studentesche avrebbero dovuto fare i conti: nel corso dei mesi successivi i prefetti furono sollecitati dal Ministero degli Interni ad agire rapidamente – in accordo con i rettori – per stroncare tramite le forze dell’ordine i tentativi di occupazione degli atenei che si stavano rapidamente moltiplicando. Nel corso del 1967, pertanto, il governo non esitò a chiarire che avrebbe affrontato la radicalizzazione delle contestazioni con la strategia con la quale si affrontano i problemi di ordine pubblico: la strategia repressiva. A chi il governo non poteva che affidare il compito di reprimere le proteste giovanili? A prefetti e questori che, in tantissimi casi, si erano formati durante gli anni del fascismo: personale, pertanto, istruito a odiare gli oppositori politici, a considerarli e a trattarli come nemici acerrimi della nazione. Il movimento studentesco, pertanto, sentì crescere in quei mesi non solo la propria forza, ma anche la crescente ostilità di quanti ne temevano gli orientamenti e le rivendicazioni.

Si trattava di un’ostilità che non poteva che apparire in linea con quel che – in quella stessa fase – accedeva altrove, in contesti lontani geograficamente, ma percepiti dai giovani come emotivamente e politicamente molto vicini; fra il giugno del 1967 e l’aprile del 1968 morirono tre personaggi-simbolo di quell’ondata globale di proteste: lo studente tedesco Benno Ohnesorg, ucciso in piazza dalle cariche della polizia; il rivoluzionario argentino Ernesto Guevara, eliminato dalle forze dell’anti-guerriglia boliviana; il leader del movimento afro-americano per i diritti civili Martin Luther King, assassinato poco dopo aver svolto un comizio. Vale la pena di ricordare che quella era anche la fase in cui – per citare tre soli altri esempi – i militari consolidavano con la repressione le basi del loro potere in Grecia, gli Stati Uniti cercavano di stroncare la resistenza vietnamita con centinaia di migliaia di soldati, mentre in Messico gli studenti morivano a centinaia nelle strade di una capitale insanguinata dalla brutalità dell’esercito schierato.

Avevano i giovani contestatori italiani qualche seria ragione per ritenere irrealistici – nel loro Paese – scenari simili? Questa è una domanda cruciale, e la risposta che legittimamente si diedero allora fu negativa; stavano scoprendo, infatti, proprio nel corso di quella fase alcuni dei modi in cui poteva funzionare la democrazia italiana: nella primavera del 1967, per esempio, vennero informati che solo pochi anni prima i vertici dell’Arma dei Carabinieri avevano cospirato contro la legalità repubblicana (Piano Solo), e videro morire – fra la fine del 1968 e l’inizio del 1969 – quattro manifestanti nelle strade di Avola e Battipaglia. Fu questo il clima in cui si sviluppò il lungo ciclo di mobilitazioni che sconvolsero l’Italia alla fine degli anni Sessanta: quell’ondata di proteste non impattò su un sistema aperto alle istanze del cambiamento, ma – al contrario – le forze politiche che governavano il Paese dimostrarono un’ostilità aperta nei confronti delle sollecitazioni provenienti dai luoghi di studio e di lavoro in agitazione.

L’ostilità con cui i contestatori furono costretti a fare i conti non fu solo quella delle forze governative: ad essa si sommava quella di un apparato repressivo e di un sistema giudiziario ai cui vertici si collocava – come si è detto – un personale intriso di pregiudizi di ogni genere nei confronti delle aspirazioni innovatrici nutrite dai giovani mobilitati. Quel che successe fu che la gerarchia dei poteri che si era consolidata nei vent’anni precedenti – anni che alcuni storici hanno definito di “democrazia post-fascista, non antifascista” – agì con estrema rigidità per stroncare il potenziale di trasformazione espresso dai movimenti che allora percorsero l’Italia in lungo e in largo. Essi, d’altro canto, suscitarono più di qualche preoccupazione anche in seno alla principale forza politica di opposizione presente nel Paese: una parte significativa del gruppo dirigente del Partito comunista guardò con diffidenza a processi di attivizzazione che coinvolgevano le giovani generazioni; anche ciò contribuì a determinare uno scetticismo crescente fra i contestatori nei confronti dei meccanismi con cui funzionava la democrazia che aveva preso fragilmente forma dopo la Liberazione.

Tutti questi fattori concorsero a determinare quella fascinazione nei confronti della violenza che piuttosto rapidamente si diffuse presso gli ambienti – studenteschi innanzitutto – più intensamente investiti dai processi di radicalizzazione: essa iniziò ad apparire a tante e tanti come il mezzo di lotta politica più coerente con la radicalità delle istanze avanzate; contestualmente essa doveva sembrare il mezzo più adeguato a far fronte alla durezza repressiva delle risposte che il sistema di potere sembrava interessato a dare alle loro domande di trasformazione. Tanti giovani diventati in pochi mesi entusiasticamente rivoluzionari si convinsero dell’imminenza di quel rivolgimento generale al quale aspiravano, e trassero dall’ostilità aperta dimostrata dai loro interlocutori polemici un’indicazione che sembrò loro immediatamente chiara: alla violenza del sistema non poteva che essere opposta la violenza, uguale ma contraria, della rivoluzione che prendeva forma.

Questa suggestione rimase tale a lungo: essa percorse le assemblee, infuocò i comizi, riempì le pagine di giornali e riviste e alzò clamorosamente i toni di volantini e manifesti, ma il passaggio alla concretezza e alla pericolosità dell’azione non fu rapido né lineare. Gli scontri di Valle Giulia del 1 marzo 1968, presso la facoltà di Architettura di Roma, rappresentarono certo una novità per l’atteggiamento offensivo con il quale il movimento studentesco affrontò l’intervento repressivo delle forze dell’ordine, ma dinamiche di questo genere non si generalizzarono subito; fu solo nel corso del 1970 che i servizi d’ordine dei gruppi principali dell’estrema sinistra sperimentarono con sistematicità il ricorso a tecniche violente di gestione della piazza, e solo alla fine del 1971 uno di questi gruppi, Potere operaio, pianificò l’utilizzo di diverse centinaia di molotov per sferrare un attacco durissimo nel corso di una manifestazione che avrebbe dovuto svolgersi a Milano (il 12 dicembre).

Fra i cortei del ’68 e quelli dell’inizio del decennio successivo era trascorso del tempo, ed erano successe molte cose: l’energia spontaneamente dispiegata dalle mobilitazioni studentesche aveva creato le condizioni per un attivismo giovanile di proporzioni sconosciute in precedenza, e alla stagione dei sit-in e delle occupazioni era seguita quella della sedimentazione organizzativa di quell’enorme potenziale di militanza. Collettivi e comitati in una prima fase, organizzazioni vere e proprie successivamente: l’area posizionata a sinistra delle organizzazioni tradizionali (Pci, Psi e Psiup) si era significativamente ingrandita, e si era popolata di una miriade di gruppi di vario orientamento, in concorrenza gli uni con gli altri; la competizione riguardava innanzitutto la capacità – che doveva essere dimostrata in tempi rapidi – di dirigere i movimenti verso quell’esplosione rivoluzionaria che in tantissimi ritenevano imminente.

Il cosiddetto autunno caldo del 1969 apparve come la dimostrazione più clamorosa di tale imminenza; i gruppi rivoluzionari nati proprio in quei mesi vi videro la conferma delle prospettive che avevano tracciato: la radicalità delle lotte operaie sembrava annunciare l’inizio delle rivoluzione proletaria. In quei mesi la conflittualità nei luoghi di lavoro rilanciò modalità d’azione che il movimento studentesco aveva abbondantemente utilizzato nella fase precedente: scioperi spontanei, cortei interni, manifestazioni non autorizzate, blocchi stradali… L’ampia partecipazione alle proteste e il successo registrato da queste forme di lotta disorientarono le organizzazioni sindacali tradizionali e determinarono una condizione euforica nell’ambiente dei gruppi rivoluzionari: il rovesciamento dei rapporti di forza nella società sembrò a portata di mano, e agli occhi di tanti militanti era stata proprio la travolgente spontaneità delle lotte studentesche e operaie a renderlo possibile.

La conclusione dell’autunno caldo, tuttavia, spiazzò l’area rivoluzionaria; la sottoscrizione da parte delle organizzazioni sindacali di un rinnovo contrattuale caratterizzato da contenuti estremamente avanzati chiuse quella lunga stagione vertenziale: le parti sociali, invece di procedere verso la prova di forza definitiva, si erano accordate, e la classe operaia appariva nei suoi settori maggioritari soddisfatta dell’accordo in questione. Questa soddisfazione risultava direttamente proporzionale alla delusione maturata in seno alla sinistra rivoluzionaria: proletariato e padronato avevano inaspettatamente trovato un terreno di mediazione, invece di sfidarsi nella battaglia conclusiva per il potere.

L’euforia che si era incessantemente alimentata nei mesi precedenti si tradusse rapidamente in frustrazione: i giovani che a migliaia – animati com’erano dall’attesa palingenetica di un grande rivolgimento generale – erano diventati nei due anni precedenti protagonisti di un’incessante propaganda rivoluzionaria, furono costretti a rendersi conto che la rivoluzione non sarebbe stata questione di settimane, e nemmeno di mesi; non sarebbe stato il moltiplicarsi frenetico degli scioperi e dei cortei a farla deflagrare e a sconfiggere definitivamente le strategie di conservatori e riformisti. Fu in questa fase che alcuni di loro si convinsero che proprio la violenza avrebbe potuto imprimere agli avvenimenti quell’accelerazione che le varie forme di lotta praticate fino a quel momento – energiche ma pacifiche – non erano state in grado di assicurare.

Il ricorso sempre meno episodico e sempre più pianificato a forme di lotta violente avrebbe potuto determinare, a parere di gruppi come il già citato Potere operaio o Lotta continua, quell’esasperazione dei conflitti che avrebbe, a sua volta, sgomberato definitivamente il campo da ogni ipotesi di mediazione o compromesso. Furono proprio il 1970 e il 1971, negli ambienti della sinistra più oltranzista, gli anni in cui il tema della violenza rivoluzionaria si impose come quello prioritario: esso venne ampiamente dibattuto, ma le parole che si moltiplicarono smisero di essere delle pure e semplici suggestioni per iniziare a tramutarsi in vere e proprie sperimentazioni; si trattò degli anni in cui i servizi d’ordine costituti in precedenza per la gestione delle emergenze di piazza si strutturarono in forme sempre più specializzate, nella prospettiva di un armamento vero e proprio e dell’eventuale clandestinizzazione.

Ma non solo: si trattò della fase in cui la violenza smise di essere considerata un’opzione praticabile esclusivamente in piazza; il tema della violenza d’avanguardia – agita come pratica funzionale alla militarizzazione del conflitto sociale nella prospettiva vagheggiata dell’insurrezione – suscitava riflessioni e momenti di confronti sempre più accesi, determinando un motivo ulteriore di competizione fra i gruppi. Fu in questo contesto, infatti, che a Milano si costituì – dalle ceneri del Collettivo politico metropolitano – l’organizzazione Sinistra proletaria, esattamente con l’intenzione di effettuare in tempi rapidi quel passaggio dalle parole ai fatti rispetto al quale Potere operaio e Lotta continua si stavano dimostrando – a dire dei suoi fondatori – esitanti; da Sinistra proletaria sarebbero nate, nel corso del 1970, le Brigate rosse.

Furono i mesi successivi all’autunno caldo, pertanto, quelli nel corso dei quali il discorso sulla violenza rivoluzionaria iniziò a essere tradotto sempre più sistematicamente in pratiche effettive: la delusione per il mancato sbocco rivoluzionario di quell’ondata di conflittualità sindacale produsse delusione e disorientamento nell’area rivoluzionaria che, a seguito dei fatti del ’68, si era significativamente ingrossata; le intese contrattuali sottoscritte vennero prima temute e poi contrastate come soluzioni compromissorie pensate per consumare l’energia trasformativa delle lotte intraprese: il timore nei confronti di una sorta di integrazione delle spinte conflittuali all’interno del quadro delle compatibilità generali provocò una crisi di orientamento nei gruppi e una conseguente reazione oltranzista.

In questo contesto, la violenza poté apparire un efficace antidoto al pericolo che il movimento rivoluzionario rifluisse: la sua logica primitiva si impose come uno strumento efficace di affermazione identitaria che, inquadrandosi in una lettura semplificata e dicotomica del conflitto sociale, riuscì effettivamente a produrre un consolidamento di appartenenze e convinzioni; i richiami più estremi all’intransigenza e al rifiuto categorico di ogni ipotesi di confronto e compromesso funzionarono come canale di sfogo della frustrazione accumulata a causa di uno sviluppo imprevisto degli avvenimenti: la mobilitazione violenta, in questo senso, si configurò come risposta aggressiva al divario sperimentato fra il carico enorme di aspettative nutrite nei confronti del conflitto sociale e l’evidenza – percepita come deludente – dei suoi esiti.

Questa dinamica s’innescò, d’altro canto, all’interno di un quadro gravemente inquinato dal pieno dispiegarsi della strategia della tensione: tutto il 1969 fu puntellato da attentati esplosivi (non rivendicati) realizzati al fine di avvelenare il clima politico del Paese; la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre costituì il passaggio più drammatico di quest’operazione di sistematica provocazione, pianificata con un obiettivo: destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico. Quanti perseguirono questa finalità si mossero in una duplice direzione: addossare alla sinistra rivoluzionaria responsabilità gravissime e spingere, contestualmente, i suoi settori più oltranzisti verso un’estremizzazione dei repertori d’azione; questa estremizzazione appariva pienamente funzionale a quella militarizzazione dello scontro sociale che, secondo gli ispiratori della strategia della tensione, avrebbe potuto legittimare agli occhi dell’opinione pubblica il ricorso al colpo di Stato.

In coerenza con questi scopi si mosse anche la galassia dei gruppi neofascisti, che faceva ampio ricorso a violenze di vario genere già prima del ’68: le iniziative del movimento studentesco vennero messe rapidamente nel mirino da picchiatori di varia appartenenza, così come le sedi di partiti e gruppi di sinistra e dell’associazionismo democratico. Sarebbe evidentemente riduttivo spiegare la fascinazione per la violenza che si diffuse in quegli anni in seno alla sinistra rivoluzionaria come una pura e semplice “perdita dell’innocenza” dovuta a quest’offensiva scatenata dal neofascismo, ma sarebbe altrettanto sbagliato trascurare l’impatto avuto da tale scatenamento: fino al 1975, infatti, fu proprio l’estrema destra a realizzare e rivendicare il maggior numero di azioni violente in Italia; solo successivamente questo “primato” è passato ai gruppi dell’estrema sinistra.

A questo punto il ragionamento può essere concluso: sarebbe completamente sbagliato considerare il ’68 come l’anno che avrebbe determinato le condizioni per un’inevitabile degenerazione violenta della lotta politica, ma regge poco anche la tesi di quanti hanno cercato di tracciare una nettissima linea di demarcazione fra quell’esplosione di conflittualità e l’inasprimento delle tensioni degli anni successivi. Lo scontro sociale e politico, nel corso di quegli anni, s’indurì progressivamente, anche in ragione di una tecnica di gestione delle relazioni sociali conflittuali ispirata a criteri prevalentemente repressivi: fu nel quadro determinato da quell’indurimento che in più ambienti trovarono uno spazio crescente – a partire già dal ’68 – discorsi di legittimazione della cosiddetta violenza rivoluzionaria; a lungo essa venne evocata senza essere praticata, ma non tardò ad arrivare – dopo tante discussioni – il momento delle sperimentazioni.

I percorsi che condussero alcuni – tanti, ma non tutti – a passare dalle parole ai fatti furono tutt’altro che lineari: se il fenomeno della lotta armata, dilagato poi, fu in qualche modo un prodotto delle dinamiche della conflittualità del biennio ’68 -’69, è anche vero che esso si contraddistinse per la progressiva negazione di alcune delle peculiarità che avevano caratterizzato quei due anni; le pratiche della violenza terroristica che imperversarono alla fine degli anni Settanta, infatti, vennero dispiegate dai gruppi armati come una strategia ritenuta più incisiva rispetto alle forme di lotta – radicali, ma pur sempre a viso aperto – sperimentate in precedenza dalle mobilitazioni: l’impatto di tale violenza contribuì non poco al rifluire di movimenti che sulle forme più svariate di partecipazione e protagonismo diffusi, invece, avevano saputo costruire i propri successi.