8 MARZO Essere donna e artista nel 600

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Artemisia Gentileschi come Giuditta: un femminismo ante litteram

di Nadia Danelon

 

‹‹Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!››: sono le memorabili parole rivolte da Artemisia Gentileschi (1593-1656) al suo stupratore Agostino Tassi, nel corso del celebre processo del 1612. Gli antefatti sono piuttosto noti, tant’è vero che dal punto di vista collettivo la vicenda umana di Artemisia viene associata solo a quelle particolari circostanze. In realtà, la Gentileschi ha saputo riscattare la propria dignità dopo la fine del processo, costruendosi una carriera talmente prestigiosa da averla fatta risaltare in un ambiente prettamente maschile come quello artistico del suo tempo. Per esemplificare questa fortuna, basti pensare all’opinione riportata in una missiva di Andrea Cioli, segretario di Stato del Granduca Cosimo II de’ Medici, risalente al marzo 1615: ‹‹[Artemisia è] un’artista ormai molto conosciuta a Firenze››.

Artemisia Gentileschi, primogenita del pittore Orazio (1563-1639) e di Prudenzia Montoni, nasce a Roma l’8 luglio 1593: viene battezzata due giorni dopo nella chiesa di San Lorenzo in Lucina alla presenza del padrino, il pittore Pietro Rinaldi. Dopo altre cinque gravidanze, nel 1605 si registra la morte della madre: Artemisia, con il passare del tempo, finisce per subentrarle nelle responsabilità legate alla casa. Rispetto ai tre fratelli più giovani (Giovanni Battista, Giulio e Francesco), l’unica figlia femmina di Orazio Gentileschi si dimostra ben presto dotata di un talento davvero straordinario. Se nel 1596 (quindi, all’età di tre anni) si diverte a giocare con i colori e a posare per il padre, dieci anni dopo inizia l’apprendistato presso la bottega di Orazio. La sua formazione viene completata nel giro di tre anni: infatti, la sua celebre tela raffigurante Susanna e i vecchioni risale appena al 1610. Orgoglioso del talento dimostrato dalla propria figlia, nel 1612 è lo stesso Gentileschi a scrivere a Cristina di Lorena: ‹‹Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nella professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, avendo per sin adesso fatte opere che forse i principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere››.

Si è spesso evidenziata la grande influenza derivante dallo stile paterno nelle prime opere di Artemisia, attraverso cui le giunge mediata anche la lezione del Caravaggio: allo stesso modo, gli storici hanno sovente ricordato il ruolo di padre padrone ricoperto da Orazio, estremamente limitante nei confronti della figlia. Tuttavia, pensando ad un ambiente come quello della Roma d’inizio Seicento, l’unica possibilità per la formazione di una giovane pittrice risulta esclusivamente limitata alle mura domestiche nella fortuna di avere un padre con una bottega già avviata. L’apprendistato della giovane Gentileschi è avvenuto, perciò, in queste circostanze. A conferma delle impressioni lasciate nei suoi contemporanei dal grande talento della giovane Artemisia, si può ricordare la testimonianza di Niccolò Bedino (apprendista di Orazio) che nel 1609 la ricorda impegnata ad eseguire degli esercizi di pittura ritraendo l’amica e vicina di casa Tuzia con il figlioletto in braccio, trasformandoli in una Madonna col Bambino. Risalgono proprio a quel periodo le due celebri tele legate a tale soggetto dipinte da Artemisia: la versione della Galleria Spada a Roma (1609) e quella di Palazzo Pitti a Firenze (1609-1610).

Il ruolo di Tuzia, custode della Gentileschi in assenza del padre, ha un’importanza determinante nelle vicende legate allo stupro della fanciulla ad opera di Agostino Tassi (1578-1644). Quest’ultimo, collega ed amico di Orazio, con il quale decora in quello stesso periodo la loggetta della sala del Casino delle Muse a palazzo Rospigliosi, viene incaricato del compito d’insegnare l’arte della prospettiva alla giovane Artemisia, della quale s’infatua. Un soggetto tutt’altro che raccomandabile: Tassi, detto ‹‹lo smargiasso›› o ‹‹l’avventuriero››, nonostante il suo talento artistico, è passato alla storia soprattutto per il suo carattere iracondo e pericoloso, anche in quanto probabile mandante di alcuni omicidi.

La vicenda, sfociata nel processo del 1612, ha inizio nel maggio 1611: quando, secondo gli atti, ‹‹Agostino entrò in casa e se ne andò da Artimitia, et la trovò che dipingeva et con lei assisteva Tutia, et giunto che fu da Artimitia comandò a Tutia che se ne andasse, et Tutia subito si levò et se ne andò di sopra, et in quel giorno proprio Agostino sverginò Artimitia››. Lo stupro, consumato nell’abitazione dei Gentileschi, termina con un’improbabile proposta di matrimonio, avanzata dal Tassi di fronte alla reazione naturalmente ostile di Artemisia (che riesce a ferirlo con un coltello). L’ingenua fanciulla finisce per farsi convincere dalle parole del pittore, ‹‹Datemi la mano che vi prometto di sposarvi››. In realtà, Agostino all’epoca è già sposato: tuttavia, con quella bugia, riesce a guadagnarsi il diritto di approfittare della fanciulla per parecchio tempo.

Infatti, i Gentileschi vengono a conoscenza della verità solo molti mesi più tardi: nella già ricordata lettera del 1612, Orazio annuncia addirittura l’imminente matrimonio a Cristina di Lorena, informandola della ferma intenzione da parte di Agostino di condurre Artemisia a Firenze per presentarla ai personaggi più illustri. Naturalmente, l’illusione ha una breve durata: nel marzo di quello stesso anno, Orazio invia la querela a papa Paolo V, denunciando le malefatte del Tassi. Il processo, iniziato nel maggio 1612, risulta estremamente umiliante e doloroso nei confronti della giovane Artemisia: viene visitata in pubblico più volte, per dimostrare l’avvenuto rapporto carnale. Ma non è tutto: subisce addirittura la tortura detta della sibilla, consistente nello stringere progressivamente i pollici mediante una sorta di morsa azionata per mezzo di una vite senza fine. Proprio in quella circostanza, un’esasperata Artemisia rivolge quelle memorabili parole piene di odio al suo stupratore. Il processo dura nove mesi, concludendosi il 27 novembre 1612 con una sentenza quasi di comodo, in buona parte prontamente ignorata dal Tassi. Infatti, oltre ad un’inevitabile sanzione pecuniaria, viene offerta la possibilità all’accusato di evitare il carcere abbandonando definitivamente l’Urbe. Agostino, naturalmente, accetta: ma basti dire che il 25 febbraio 1644 muore proprio a Roma, senza essersene mai andato.

Per Artemisia il destino ha in serbo un futuro differente: molte soddisfazioni professionali, come si è visto, ma anche una vita personale sempre tormentata. Sposa, appena due giorni dopo la fine del processo (29 novembre 1612), il pittore Pietro Antonio Stiattesi nella chiesa di Santo Spirito in Sassia. Un artista mediocre, scelto come marito per la figlia da Orazio stesso. Artemisia, stanca dell’atteggiamento del padre, finisce per abbandonare quasi immediatamente il cognome Gentileschi: una volta trasferitasi a Firenze insieme a Stiattesi, decide infatti di firmarsi ‹‹Artemisia Lomi›› in omaggio allo zio (Aurelio Lomi). Da Pietro Antonio, Artemisia ha quattro figli: Giovanni Battista, Cristofano, Prudenzia e Lisabella. Grazie all’influenza di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1646), nipote del grande artista e talmente affezionato alla pittrice da assumere un atteggiamento paterno nei suoi confronti, oltre che al fondamentale appoggio del Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici (1590-1621), la carriera della Lomi subisce una svolta definitiva. Il 19 luglio 1616, il Granduca riesce a farla ammettere all’Accademia del Disegno di Firenze, alla quale rimane iscritta fino al 1620: è la prima donna in assoluto a godere di quel privilegio. Il marito, tuttavia, continua ad accumulare debiti che non permettono una vita dignitosa alla famiglia: è la moglie ad appellarsi alla benevolenza di Cosimo II, presentandosi però orgogliosamente ai consoli dell’Accademia con il titolo di ‹‹Madonna Artemisia Lomi pittora in suo nome proprio››.

L’anno dopo (1620), spinta dal desiderio di rientrare nella sua città natale, chiede al Granduca l’autorizzazione per recarsi a Roma ufficialmente in modo da rimettersi dalle ‹‹molte mie indisposizioni passate (quattro gravidanze, oltre alle commissioni, non sono poche) alle quali sono giunti anche non pochi travagli dalla mia casa e famiglia››. I rapporti con il marito sono, a quel punto, irrimediabilmente incrinati: ma, allo stesso tempo, le viene offerta l’occasione per riallacciare il legame con il padre.

Scelgo di fermarmi qui con il racconto delle vicende di Artemisia Gentileschi (o Artemisia Lomi), perché quest’arco temporale fa riferimento anche alle sue quattro tele raffiguranti l’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, autentica trasposizione visiva della determinazione e dell’audacia di una donna fuori dal comune. Il riferimento alle Sacre Scritture è piuttosto noto, trattandosi di un soggetto molto comune: la vedova Giuditta escogita un piano per liberare la sua città (Betulia) dall’esercito assiro capeggiato da Oloferne. Si veste con i suoi abiti migliori e insieme alla sua serva Abra si reca nella tenda del condottiero: quest’ultimo la invita a cenare con lui e dopo il pasto si addormenta ubriaco. Giuditta ne approfitta e lo decapita, per poi nascondere la sua testa grazie ad Abra e fuggire dall’accampamento.

Un aspetto molto importante: nelle opere di Artemisia legate a questo soggetto, a differenza delle trasposizioni del medesimo nella produzione di altri autori, vi è una forte solidarietà ed aiuto reciproco tra le due protagoniste femminili (Giuditta ed Abra). Il motivo, secondo gli studiosi (come segnalato, in particolare, da Tiziana Agnati nel 2001), è dovuto al tradimento di Tazia nei confronti di Artemisia al momento dello stupro: quell’abbandono, mai dimenticato, comporta nell’animo della pittrice un bisogno di solidarietà al femminile. Ciò si coglie soprattutto nell’opera Giuditta con la testa di Oloferne (1613-1619), la seconda delle quattro, conservata nel fiorentino Palazzo Pitti: mentre stanno uscendo dalla tenda di Oloferne, Giuditta posa una mano sulla spalla di Abra ed entrambe si girano verso la stessa direzione. Solidarietà, aiuto per affrontare insieme un eventuale pericolo imminente.

Quindi, non è un caso se, negli anni Settanta del Novecento, Artemisia è stata eletta come uno dei simboli del femminismo internazionale: come ha detto la leader Germaine Greer, si tratta della ‹‹grande pittrice della guerra tra i sessi››. Una figura di donna a cui ispirarsi che, nonostante il torto subito, ha saputo rialzare la testa e combattere per riconquistare la propria dignità.

 

 

Artemisia Gentileschi

Giuditta con la sua ancella

olio su tela

1618-1619 circa

Palazzo Pitti, Firenze