Una banda di idioti

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di Luisella Pacco

 

Ditemi. Quando, nell’intimo del vostro cuore, ritenete che una cosa (canzone, film, tendenza di moda, o libro) osannata dall’universo mondo e definitivamente decretata bellissima e geniale, sia una colossale bufala, voi, voi che fate? Vi adeguate al pensiero comune, arrivando persino codardamente a simulare il medesimo entusiasmo della folla, oppure osate esporre il vostro discorde parere?

Queste sono faccende sulle quali si misura il coraggio. Certo, non quello serio, dell’affrontare gli ostacoli o le tragedie della vita. Un coraggio modesto, diciamo così. Ebbene, io raccolgo il mio, e… oso!

Una banda di idioti, celebratissimo romanzo di John Kennedy Toole (1937-1969) – “caso editoriale” con protagonista sozzo egocentrico ghiottone ozioso onanista presuntuosissimo, l’insopportabile Ignatius C. Reilly – a me, ve lo confesso, non va né su né giù.

Non lo avrei nemmeno mai comprato: mi sarebbero bastati i consueti gesti da libreria per tenermene lontana (una rapida lettura delle prime righe, una rapida lettura delle ultime, e una scorsa in mezzo, l’occhio dove cade cade: se colpo di fulmine dev’essere, può bastare).

Le prime righe mi avrebbero detto questo: Un berretto verde da cacciatore stringeva la sommità di una grossa testa, tonda come un pallone. I paraorecchie verdi, che a malapena riuscivano a contenere le orecchie enormi, i peli che vi crescevano dentro e i capelli incolti, erano sollevati da entrambe le parti come due frecce che indichino direzioni opposte. Fra i folti baffi neri si insinuavano le labbra carnose e contratte che agli angoli terminavano in tante piccole rughe piene di disapprovazione e di briciole di patatine.

Le ultime due pagine mi avrebbero mostrato Ignatius che si fa scarrozzare da una ragazza, Myrna, lagnandosi per ogni cosa. Non vorrai mica che mi metta sul sedile anteriore! È una trappola mortale, specie se si viaggia in autostrada. […] Questa macchina è piuttosto stretta per me. Sei sicura di sapere la strada per arrivare a New York? Dubito di poter sopravvivere più di un giorno o due in questa posizione fetale […] Stai attenta ai pullman granturismo, mi raccomando, perché quelli non ci mettono niente a schiacciare un trabiccolo come questo. […] Attenta a quell’ambulanza: non vorrai mica cominciare questo pellegrinaggio con un incidente?

Roba da abbandonarlo sul ciglio della strada, senza che nemmeno un animalista se ne risenta.

L’ultima riga (Prese la coda di cavallo e se l’accostò con ardore ai baffi umidicci) si riferisce alla coda di cavallo della ragazza, ma credetemi se vi dico che questo individuo disgustoso lo avrebbe fatto anche con la profumata estremità dell’animale.

La veloce scorsa nelle pagine di mezzo mi avrebbe fatto cadere l’attenzione (e le braccia) su gonfiori, flatulenze, rutti, una stanza batteriologicamente infestata, una valvola pilorica perennemente ingorgata, e una personalità ipertrofica e saccente. Il titolo prende spunto proprio dalla convinzione di Ignatius di essere un genio, ovvero dall’epigramma di Jonathan Swift: “Quando viene al mondo un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui” (in inglese “When a true genius appears in the world, you may know him by this sign, that the dunces are all in confederacy against him”. A Confederacy of dunces è appunto il titolo originale del romanzo).

Insomma, se l’avessi sfogliato, nossignori, non l’avrei comprato mai. Ma mi è stato regalato (avvilente, quanto alcuni regali possano essere lontani anni luce da ciò che il festeggiato desidera) ed è così che il libro è entrato, ospite sgraditissimo, in casa mia. Nei molti mesi trascorsi, ci ha gironzolato come fosse dotato di gambe, mettendosi sempre davanti ai miei occhi, con l’aria alternativamente supplichevole e boriosa (Leggimi, leggimi… Lo sai o no che sono un capolavoro?), e io ho fatto ogni sforzo, vi giuro, per amarlo, o almeno per apprezzarlo, per scorgervi quello che il resto del mondo vede, per ridere di ciò che fa ridere gli altri (pare si tratti di opera molto divertente, da sganasciarsi, proprio).

Ebbene, no. È stata una lettura di una noia addirittura imbarazzante.

Dunque, perché ve ne parlo?

Primo, perché potrei avere torto: queste antipatie sanguigne sono del tutto soggettive, e ciò che vi suggerisco detestandolo, potrebbe per voi essere una sorpresa godibilissima; secondo, perché mi intriga (questo sì) la vicenda umana che vi si nasconde dietro.

Toole nasce nel 1937 a New Orleans. La madre Thelma è una figura invadente e patologicamente protettiva che certo non lo aiuta a crescere in modo equilibrato e sereno. Il bimbo viene tenuto quasi in isolamento dai suoi coetanei (mi viene in mente la madre di Howard P. Lovecraft…). Dopo gli studi, John insegna inglese all’università e, mentre è nell’esercito, anche alle reclute di madrelingua spagnola. Oltre all’attività universitaria, si dedica a disparati mestieri (venditore di focacce, operaio in una fabbrica di abiti maschili) che probabilmente diventano di ispirazione per descrivere le catastrofiche esperienze lavorative di Ignatius. Scrive giovanissimo un primo romanzo, La Bibbia al neon, che rimane nel cassetto. Poi si dedica a Una banda di idioti che ritiene il suo capolavoro. Il manoscritto però non viene accolto da nessuna parte. La motivazione dell’editore Simon & Schuster di New York, ad esempio, è “perché in realtà non parla di niente”.

Vedendo sfumare il sogno della pubblicazione (e forse non solo per questo, c’è chi parla di problemi personali, una crisi di identità sessuale, lo sfinimento per l’ingombrante presenza materna), il frustrato Toole cade in un baratro di depressione ed inizia a bere. Il 26 marzo 1969 viene trovato morto nella sua auto: si è ucciso collegando un tubo tra marmitta e abitacolo.

Dopo la morte del figlio, la madre trova i manoscritti e, convinta com’è della genialità del suo John, inizia una sua personale battaglia da mamma-coraggio della letteratura (avesse consentito al figlio una serena esistenza, sarebbe stato meglio). Sbatte senza esito contro molte porte chiuse, finché nel 1976 contatta lo scrittore Walker Percy, autore tra l’altro di L’uomo che andava al cinema. Il poveretto viene tempestato di telefonate e infine trova il manoscritto sul tavolo. “E perché dovrei leggerlo?” chiede esasperato. “Perché è un grande romanzo!”.

La signora invadente e ostinatissima, il figliolo suicida: ci sono tutte le patetiche premesse per credere che si tratti dell’ennesimo testo scarrafone bello solo a mamma soja. Invece Percy, con sua stessa sorpresa, rimane conquistato da quei fogli disordinati e sudici (pure loro), da una storia che definisce esilarante ed eccentrica, e dal personaggio che non somiglia a nessun altro: “… ecco qui Ignatius C. Reilly, una figura senza precedenti della letteratura (una strana miscela tra un Oliver Hardy impazzito, un Don Chisciotte grasso e un Tommaso d’Aquino perverso)”.

Così, Una banda di idioti arriva alla pubblicazione nel 1980, al Pulitzer nel 1981 e a due milioni di copie vendute. Successivamente viene ripescato anche Una Bibbia al neon, che nel 1995 diventa un film (in italiano Serenata alla luna, con Gena Rowlands). E a New Orleans c’è pure una statua in bronzo, che rimanda alla scena di apertura del romanzo, di Ignatius che aspetta la mamma fuori da un centro commerciale.

Non mancano acute analisi sociologiche sul perché questo libro abbia tanto colpito l’immaginario americano. Nella prefazione, Stefano Benni scrive: “L’America ha molte facce, ma quasi tutte hanno paura della faccia di Ignatius. Perché nel suo corpaccione riassume tutto ciò che l’America non ammette di essere. Drogata di televisione, bulimica di pestiferi hot dog e bibite gassate, delirante e razzista.

Al di là delle mie impressioni (e sottolineo, mie: a voi questo romanzo potrebbe piacere da matti), commuove che questo giovane scrittore sia morto senza vedere nemmeno una minima parte del successo che gli sarebbe stato in seguito tributato.

Ti sei arreso troppo presto, John.