L’ombra lunga di Le Corbusier

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Dino Tamburini e l’istituto Statale d’Arte

“Enrico e Umberto Nordio” di Trieste

non una scuola in forma di palazzo, ma di monumento all’architettura contemporanea

di Maurizio Lorber

 

 

Nell’anno scolastico 1976/1977, fu finalmente completato, a sei anni dall’inizio dei lavori, il nuovo edificio di via Calvola, progettato da Dino Tamburini, ancora oggi sede della scuola. Con decreto ministeriale del 27 dicembre 1973 si impose la nuova titolazione di “Istituto Statale d’Arte Enrico e Umberto Nordio”. Ma, già qualche anno prima che ciò accadesse, Romano Barocchi, preside e fondatore della scuola, scriveva con disappunto che «è da auspicare che almeno nel prossimo avvenire quest’Istituto sia seriamente ristrutturato per adeguarlo alle effettive necessità dell’odierna economia regionale (basti pensare che fu istituito soprattutto per l’arredamento navale. mentre da anni i Cantieri navali sono inattivi o quasi nel settore della costruzione di navi passeggeri)».

L’esiguità e la mancata funzionalità degli spazi lamentata nel corso degli anni sembravano aver trovato una soluzione. Si tratta di un edificio che, nell’ambito locale, non assomiglia a nessun altro seppure vi si possano riscontrare delle vaghe similarità, soltanto nell’alzato laterale a forma trapezoidale, con il Tempio di Monte Grisa di Antonio Guacci. Potremmo definirlo sinteticamente non una scuola in forma di palazzo ma di monumento all’architettura contemporanea. L’impressione che suscita l’edificio, costituito da due corpi di fabbrica che si pongono sul dislivello che intercorre fra la via Calvola e la via Negrelli, è quella della sagoma di una nave con le pareti inclinate che contribuiscono a conferire solidità ed equilibrio statico all’intera struttura. I corpi di fabbrica furono progettati con l’intento di ricavare quanto più spazio possibile, collocando, nella parte sottostante dell’edificio, i laboratori raggiungibili dal corpo superiore attraverso collegamenti interni. Proprio questi ambienti sono progettati in modo da sfruttare il più possibile la luce naturale che penetra anche attraverso una serie di cupole in plastica opaca.

Non è questo il primo progetto presentato per la realizzazione dell’Istituto. Precedentemente infatti venne proposta una soluzione architettonica, sempre a firma dell’ingegner Tamburini, ma ideata in realtà da Romano Barocchi, il cui impianto strutturale prevedeva la coesistenza di più padiglioni collegati fra loro da corridoi.

L’edificio realizzato da Tamburini è molto più ardito e articolato. La costruzione, imponente e complessa, occupa un’area di 3500 metri quadrati con un’altezza di 25 metri per 85 di lunghezza. L’aspetto che caratterizza visivamente l’intera costruzione è, nonostante l’apparente semplicità, di difficile definizione spaziale se osservata da un unico punto di vista. Internamente si contraddistinguono l’aula magna di 173 metri quadri, uno degli ambienti di maggior impatto visivo, e le aree di 170 metri quadrati ciascuna che accolgono i laboratori di arti applicate. Per quanto l’edificio appaia anomalo, l’idea progettuale di sviluppo su due livelli e in due sezioni separate trova la sua ragion d’essere nella volontà di coniugare soluzioni architettoniche originali e lo sfruttamento ottimale dell’illuminazione solare proveniente da nord evitando così il più possibile la luce tagliente diretta. Ma, come dicevamo, l’aspetto peculiare è la struttura bipartita: due corpi di fabbrica separati, collegati fra loro da “archi rampanti” di cemento, posti su due livelli diversi e divisi da un giardino pensile che corre longitudinalmente fra i due edifici.

Nella breve analisi non possiamo comunque prescindere da due fattori che solo apparentemente sono distanti fra loro: da un lato l’intento di ricercare una forma originale e dall’altro quella ricerca di una nuova identità della scuola che si configurava dalla fine degli anni Sessanta. La coincidenza cronologica di questi due aspetti fece emergere, nelle critiche mosse alle soluzioni architettoniche di Tamburini, problematiche didattiche rilevanti.

Esiste infatti una relazione circostanziata di quattro pagine attribuibile a Romano Barocchi nella quale vengono portati alcuni attacchi critici nei confronti del progetto, fra i quali rientrano le vetrate ad effetto “serra”, la cattiva illuminazione e la difficoltà di controllo sugli studenti in una struttura alquanto labirintica. Si tratta evidentemente di una critica eccessivamente severa , formulata forse perché questo secondo progetto era in totale dissonanza con quello voluto e proposto da Barocchi. Tuttavia, uno dei punti sollevati dal direttore della scuola risulta significativo in quanto mette in luce l’idea che egli aveva del futuro della scuola. Riguarda il progetto che, ripartito in otto settori da pareti trasversali portanti, impone all’edificio una rigida suddivisione, tale da non permettere modifiche spaziali. Viene rilevato che «una costruzione a pilastri avrebbe indubbiamente consentito una ben maggiore liberalità di soluzioni e agevolato eventuali necessarie modifiche». Barocchi vedeva con lungimiranza la questione su di un orizzonte più ampio di imprevedibilità di mercato e committenza che, dalla fine degli anni Sessanta, paventava una realtà produttiva totalmente diversa dal passato: la scuola doveva, anche architettonicamente, essere pronta ad adeguarsi con flessibilità alle nuove sfide del futuro (design, disegno industriale, grafica…) non più legato alla produzione cantieristica.

Nel 2005 ebbi modo di incontrare Dino Tamburini che volle sottolineare come il primo progetto, pensato da Barocchi (per inciso fratello della storica dell’arte Paola Barocchi scomparsa il 24 maggio 2016) fosse banale, mentre era sua intenzione realizzare un edificio scolastico che risolvesse problemi funzionali e al contempo stimolasse la creatività di allievi e maestri. Fortunatamente fu questa proposta, a forte impronta innovativa, ad essere accettata. Quando ripensai alle parole di Dino Tamburini la prima domanda che mi posi fu: come se lo immagina un architetto un edificio che stimola la creatività? La risposta molto semplice che formulai fu un edificio moderno che non avesse niente a che vedere con le vecchie scuole asburgiche o con gli anonimi capannoni industriali. Posi attenzione al fatto che Tamburini aveva una curiosità particolare per la storia dell’architettura, infatti recuperai presso l’allora Istituto di Storia dell’Arte un testo inedito, tutt’ora depositato nella biblioteca, nel quale l’architetto esaminava gli edifici del Liberty triestino (Il Liberty a Trieste, 1980, testo inedito). Nel leggerlo mi accorsi che l’esame delle forme e degli stili del passato lo poneva in una condizione diversa dallo studioso; il suo occhio indagava in quello che Henri Focillon chiamava le monde des formes con un’attenzione particolare per le soluzioni plastiche. Proprio per tale motivo credo che nel momento in cui iniziò a pensare una forma per l’edificio scolastico che “stimolasse la creatività” volle guardare a delle proposte “scultoree” dell’architettura contemporanea che al contempo richiamavano gli esempi più noti delle scuole d’arte. L’origine storica di queste scuole, come ben noto, risale all’epoca industriale della seconda metà dell’Ottocento, ma è Walter Gropius, nella prima metà del Novecento che progetta il Bauhaus da capo a fondo, principi didattici compresi.

Ma l’edificio a Dessau di Gropius era troppo freddo; quella dimensione plastica che Tamburini cercava era assente seppure le ampie vetrate – criticate da Barocchi – abbiano un ruolo affatto secondario nella realizzazione triestina. Vorrei aggiungere che nell’anno scolastico 1969-1970 la scuola assunse l’architetto Luciano Celli che, dopo un brevissimo periodo – soltanto quattro mesi – venne sostituito dall’architetto Alessandro Psacaropulo, già cinquantacinquenne che ricoprì la docenza per quasi quindici anni. Grazie alla sua esperienza professionale s’inaugurava una fase significativa per la didattica della sezione di architettura e arredamento. Possiamo così congetturare, pur senza provarlo, che Dino Tamburini tenesse conto di questi illustri colleghi e desiderasse dare prova di brillante capacità progettuale. Lo possiamo quindi immaginare intento a trovare modelli e fonti visive che potevano costituire uno stimolo concreto a un progetto originale. «Il nuovo Istituto d’arte – è stato detto – più che una scuola sembra un monumento» («Questa la nuova sede dell’Istituto d’Arte», Il Piccolo, lunedì 6 settembre 1976) e la Maison de la Culture di Le Corbusier, a Firminy in Francia, edificata fra il 1961 e il 1965, mi sembra un esempio azzeccato di architettura concepita come se fosse una scultura monumentale con aspetti morfologici che ci permettono di accostarla alla soluzione architettonica di Dino Tamburini. L’edificio di Le Corbusier fa parte di un complesso multifunzionale, sportivo e culturale, che contempla anche una bellissima chiesa (completata da José Oubrerie, allievo dell’architetto svizzero, appena nel 2006). Se oggi Maison de la Culture è stata dichiarata monumento UNESCO possiamo comprendere l’eccezionale impatto che ebbe anche a suo tempo sugli architetti europei e forse non è casuale che L’istituto Statale d’Arte gli assomigli.

 

 

DIDASCALIE

Fig. 1 Dino Tamburini. L’Istituto Statale d’Arte “Enrico e Umberto Nordio”. Alzato

Fig. 2 Il “Nordio” ultimato nel 1976.

Fig. 3 Le Corbusier, la Maison de la Culture costruita fra il 1961 et 1965, è la prima realizzazione del centro culturale e sportivo destinata a completare il quartiere “Verde” di Firminy.