Il cervello nudo di Giuseppe O. Longo

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di Paolo Quazzolo

 

“Umano, post-umano. Verso l’homo technologicus?” è stato il tema proposto quest’anno da “Trieste Next”, la manifestazione promossa dall’Università degli Studi di Trieste, che si è svolta durante gli ultimi giorni dello scorso settembre. In quell’occasione, presso l’Auditorium del Museo Revoltella, è stata proposta una lettura scenica del testo drammatico Il cervello nudo di Giuseppe O. Longo. L’iniziativa, che bene si accordava con la tematica di “Trieste Next”, offre la possibilità per qualche riflessione su un lavoro teatrale denso di significati e, soprattutto, capace di suscitare forti emozioni nello spettatore.

L’atto unico ha visto la luce nel 1999, quando è stato proposto per la prima volta al pubblico, presso il Teatro Miela di Trieste, nel contesto della rassegna “Teatralmente intrecci”. Prodotto da La Contrada – Teatro Stabile di Trieste, il dramma venne allora diretto da Luisa Crismani e interpretato da Orazio Bobbio, Marzia Postogna, Adriano Giraldi, Gualtiero Giorgini e Fabio Musco.

Adottando un procedimento compositivo seguito talora da altri autori drammatici (si pensi, ad esempio, a Giovanni Verga o a Luigi Pirandello), anche Giuseppe O. Longo, per la stesura del Cervello nudo, è partito dalla rielaborazione di materiali narrativi scritti negli anni precedenti. Dietro questo atto unico stanno infatti due racconti: Machina Dolens, scritto nel 1980 e in seguito revisionato nel 1999; e Avvisi ai naviganti del 1988.

Il primo dei due racconti è ambientato in una piccola cittadina isolata dal mondo: inaspettatamente essa possiede un Museo della scienza e della tecnica ove sono esposti pochi insignificanti pezzi. Francisco, il protagonista, ha modo di visitarlo, senza tuttavia provare particolari emozioni. È solo al termine della visita “ufficiale” che il custode gli propone di dare un’occhiata anche a una stanza segreta, ove sono custodite «delle macchine molto strane, come cagnolini», regalate al museo anni prima da un ingegnere impazzito e ora chiuso in un manicomio. La visita si rivela alquanto sconvolgente: entrato nella stanza, il protagonista viene improvvisamente circondato da delle macchine che sembrano vivere di una vita propria e che emettono pigolii, quasi una sorta di inquietanti richiami carichi di dolore e di disperata supplica.

Avvisi ai naviganti è viceversa ambientato in una cittadina che si affaccia sul mare Mediterraneo. Vi è narrata, in prima persona, la storia di un uomo, forse uno scienziato, che soffre di un male misterioso e incurabile e che viene sottoposto dal medico curante a crudeli quanto inutili indagini per cercarne di scoprire le cause. Unico modo per lenire i crescenti dolori è quello di ascoltare alla radio gli “avvisi ai naviganti” che procurano nel protagonista un effetto stranissimo: con il progredire della malattia gli si sono progressivamente affinati il senso della vista e dell’udito, cosicché è in grado di vedere e sentire realmente ciò che accade nei luoghi lontani citati negli “avvisi”.

Dalla rielaborazione di queste due fonti nasce il dramma Il cervello nudo, un atto unico che vede quale protagonista il professor Arcularis e sua figlia Marion. Il celebre studioso, ormai anziano, è ospite di una casa di cura ove il dottor Krajlevic cerca di scoprire quali siano le origini di un misterioso male che attanaglia il suo paziente. Si tratta di una malattia sconosciuta i cui devastanti sintomi provocano nella vittima l’impressione che un affilatissimo bisturi ne stia tagliando in fette sottilissime il cervello. Nel delirio che sembra precedere una ormai non lontana morte, lo scienziato trova sollievo nell’ascoltare gli “avvisi ai naviganti”, riuscendo – proprio come il protagonista del racconto – a vedere realmente i luoghi lontani citati nel programma radiofonico. Arcularis, tuttavia, sembra essere tormentato da una sofferenza interiore ancora più grande: una sorta di rimorso per aver interrotto, ormai da anni, ogni rapporto con l’unica sua figlia; ma anche una irrimediabile sofferenza per essere stato l’inventore di una macchina talmente sofisticata, capace non solo di ragionare ma addirittura di provare sentimenti.

Il cervello nudo è una raffinata riflessione, sotto forma drammaturgica, sull’intelligenza artificiale e, in particolare, attorno le macchine cibernetiche intelligenti. Giuseppe O. Longo, unendo da un lato le sue competenze quale studioso di Teoria dell’informazione e dall’altro le sue qualità di narratore e drammaturgo, ci offre una serie di interessanti e talora inquietanti spunti di riflessione attorno alla ricerca scientifica e ai suoi possibili/necessari limiti. Un tema complesso, che l’uomo ha affrontato più volte in svariati contesti e al quale è difficile, se non impossibile, dare una risposta. Unendo quindi la sensibilità dell’umanista a quella dell’uomo di scienza, l’autore ci pone di fronte a un racconto scenico che – si badi bene – non è assolutamente un esempio di fantascienza, ma viceversa il tentativo di illustrare una concretissima gamma di sentimenti, emozioni e speranze che possono percorrere la mente di uno scienziato.

Il punto di partenza è sicuramente dato dalla riflessione sulle potenzialità della ricerca scientifica e sui limiti che ad essa si devono porre. Ma, come bene sanno coloro che per scelta professionale si occupano di ricerca, questa è sempre mossa da una grande passione: chi fa il ricercatore scientifico opera spinto da un lato dal bisogno di conoscere la verità e dall’altro da una irrefrenabile passione per il proprio mestiere. Questi due sentimenti, mescolati assieme, spesso finiscono per portare lontano, superando limiti e barriere che, forse, talora non dovrebbero essere valicati. È quanto succede ad Arcularis che, esperimento dopo esperimento, supera tutte le barriere imposte dal pudore e dalla morale. Attraverso la storia del protagonista del Cervello nudo, Longo ci fa ripercorrere la storia delle macchine cibernetiche, dapprima semplici automi meccanici, poi strutture sempre più raffinate, capaci di relazionarsi con lo spazio circostante e di reagire agli ostacoli che ad esse vengono opposti. Il passo successivo, quello compiuto appunto da Arcularis, è attribuire un’anima alla macchina. Da qui l’inquietante domanda: la macchina ha coscienza di se stessa? È capace di comprendere cosa sta succedendo fuori di essa? La scoperta devastante del protagonista del dramma è che le macchine da lui create hanno sì un’anima ma, con esito inaspettato, sembrano soffrire. E tale sofferenza è resa palese dai pigolii, veri e propri lamenti, che esse emettono.

A questo punto appare evidente che gli esiti di una tale scoperta sono la conseguenza di un orribile delirio di onnipotenza che rende lo scienziato simile a un dio creatore, sorta di novello Frankenstein, capace di donare alle sue creature la vita e l’anima.

Ma, alla fine del dramma, ci poniamo numerose domande, non solo sul senso della ricerca scientifica, ma anche sulla storia stessa narrata: di cosa è veramente ammalato Arcularis? Le macchine di cui parla sono state davvero inventate? La vicenda è reale oppure accade nella mente ormai devastata del protagonista? Ma, soprattutto, ciò che rimane nello spettatore è l’idea, evocata sia in apertura che in chiusura del dramma, di uno sconcertante parallelo tra l’evoluzione umana e quella tecnologica, entrambe partite da aspetti elementari per approdare a forme sempre più evolute e sofisticate. E, al chiudersi del sipario, tutti noi proviamo un grande senso di melanconia sia per l’uomo scienziato sia, inaspettatamente, per le macchine stesse, che nella loro sofferenza sembrano chiedere disperatamente aiuto per essere liberate dalla loro condizione.

La lettura tenutasi all’Auditorium del Museo Revoltella a cura della Compagnia Art&Zan de l’Armonia, è stata diretta da Giuliano Zannier che ne è stato anche interprete assieme a Giuliana Artico, Andrea Salvo, Paolo Massaria e allo stesso Giuseppe O. Longo, impegnato nel ruolo del protagonista.