Ahimè, AIM! Tre anni di invisibilità

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Un progetto forse troppo ambizioso, un sito infelice, una sinergia mancata

di Roberto Curci

 

Agosto 1993. Dopo la sorella Wanda, anche l’ultima dei Wulz, l’ottantottenne Marion, già splendida modella di Gino Parin ed Edmondo Passauro, lascia questa valle di lacrime e l’attico-soffitta di Palazzo Hierschel in cui era da sempre vissuta, ultima della celebre dinastia di fotografi triestini. Cordoglio generale e un bel “coccodrillo” firmato da Claudio Magris sul “Corsera”.

Ma, ci si chiede all’epoca, dov’è finito il ponderoso archivio (oltre novemila tra negativi e vintage prints) di Giuseppe, Carlo, Wanda e Marion? Tranquilli, è già da qualche anno al sicuro: l’ha acquisito la Fratelli Alinari, il top dei top nella storia della fotografia italiana, di cui è presidente e “anima” Claudio de Polo, un triestino non molto triestino, volitivo e vulcanico com’è rispetto alla media caratteriale dei suoi neghittosi concittadini.

L’acquisizione è avvenuta nel 1989-’90, poco dopo quella di un altro sterminato fondo triestino (quello dei Pozzar, 90 mila negativi), ed è stata anzi “festeggiata” con un’importante mostra a Palazzo Costanzi, a cura di Elvio Guagnini e Italo Zannier: “La Trieste dei Wulz. Volto di una storia. Fotografie 1860-1980”. Ma non tutti, nella città eternamente conflittuale, gioiscono. L’Archivio Wulz è stato salvato? Macché, protestano gli scontenti. E’ stato scippato da Alinari ed è finito a Firenze, dunque lontano da casa, né di conseguenza sarà più visibile e consultabile. (Come se prima lo fosse).

De Polo rassicura: con un ingegnoso sistema informatizzato di “microfiches” (gli archivi digitali sono di là da venire) saranno a disposizione di tutti non solo l’Archivio Wulz, finalmente ordinato e scientificamente schedato, ma pure altri giacimenti storici, come il Brogi e l’Anderson. La polemica prosegue sotto traccia. Ma la Regione benedice l’operazione, anzi nell’ottobre del ’92 presenta in pompa magna, nel Palazzone di Piazza Unità, l’opera di catalogazione e trasposizione su “microfiches”, e dunque l’intero “indice tematico” del Fondo Wulz.

Tutto bene. Salvo il fatto che Claudio de Polo alza la posta negli anni a seguire e, forte delle sopraggiunte innovazioni tecnologiche inimmaginabili solo poco tempo addietro, s’inventa un’altra sfida: dotare Trieste, terza città in Europa dopo Londra e Parigi, di un museo digitale in cui chiunque sia interessato per ragioni di studio e di ricerca, ma anche di mera curiosità culturale, possa navigare nell’oceano praticamente sconfinato delle immagini fotografiche che rappresentano il patrimonio iconico dell’Alinari.

De Polo, dunque, vara il progetto dell’Alinari Image Museum, e si attende – forse dimentico della neghittosità locale – ponti d’oro e pronta adesione a un’idea che altrove indubbiamente susciterebbe consensi e buoni propositi collaborativi. Non va così. Gli anni passano e le promesse pure, la primitiva sede prevista per il cosiddetto AIM è bocciata, ci si mettono di mezzo pure noie giudiziarie risoltesi in bolle di sapone: del progetto non si ha più contezza, pare ormai una delle tante fantasticherie azzardate, tipiche dell’immaginario triestino.

Ebbene no, nel 2016 (già: appena nel 2016) la pazza idea di de Polo si concretizza finalmente nella ristrutturata sede del cosiddetto Bastione Fiorito del Castello di San Giusto, con profusione di mirabilie tecnologiche. E tuttavia l’AIM, via via accessoriato da una serie di mostre di fotografi spesso di eccellente lignaggio (Sellerio, Capa, Migliori, Quilici, infine Frullani), ha un avvio lento, affaticato. L’avanguardistico progetto, tanto fortemente voluto, sembra avere già il fiato corto. In effetti è così. E così sarà per il suo breve percorso, meno di tre anni, senza mai decollare davvero e con l’inevitabile, scontata coda di polemiche, accuse e controaccuse.

Su questa coda è oggi inutile spargere il sale, sarebbe come versarlo su delle ferite aperte. Possibile, si chiede il Sor Ingenuo, che un’iniziativa di indubbio prestigio culturale, potenzialmente attrattiva anche per i “non addetti”, fallisca tanto presto e tanto clamorosamente? Possibilissimo, con tutta evidenza. Ma gli scambi di contumelie servono a poco. Basta por mente a pochi, essenziali dati di fatto:

1 – il progetto dell’Alinari Image Museum era ambizioso, troppo ambizioso, per una città che rifugge dalle idee forti, innovative e “diverse”. E tale era l’AIM, degno di una grande capitale ma non di una città di 200 mila abitanti che si crogiola nei propri miti appannati.

2 – la sede, suggestiva ma tragicamente decentrata, buona solo per i balli del dopoguerra tra militari alleati e belle “mule”, era decisamente sbagliata, e per di più – colpa di chi? – priva della necessaria segnaletica.

3 – a prescindere dal sito infelicissimo, chi doveva supportare robustamente l’iniziativa, il Comune di Trieste, non l’ha fatto, è mancata del tutto la promozione e la visibilità dell’iniziativa, e quella che doveva essere una fruttuosa sinergia si è risolta in una penosa schermaglia sul costo dei biglietti d’ingresso.

4 – c’entra poco, ma è chiaro che il colle di San Giusto rimarrà a portata di soli pullman turistici (anche se si afferma che i dati dei visitatori del Castello – ma non certamente dell’AIM – si sono moltiplicati) finché non sarà attivato il sempre promesso ascensore che consenta anche a vecchietti e disabili di inerpicarsi lassù.

Morale, non nuova: osare non si confà a Trieste e ai triestini, o almeno ai suoi reggitori. Ce lo rammenta, in altro modo e su altri temi, il coraggioso libro (Parlandone da amico) di Giulio Montenero, già direttore del Museo Revoltella, da poco edito da LINT. Si legga il denso capitolo che minuziosamente ricostruisce il travagliatissimo iter dell’Ala Nuova del Museo e dei tanti bastoni fra le ruote in cui Carlo Scarpa (e Montenero) dovettero inciampare.

  1. S. Che poi sul sostanziale fallimento del progetto AIM ci sia oggi chi ci marcia, sostenendo che è l’intera mega-struttura, fiorentinissima e quasi bisecolare, della Fratelli Alinari a collassare e a chiudere bottega per sempre ha il sapore di un’inutile stoccata maramaldesca. Vero è che l’azienda è in crisi dopo la vendita dello storico palazzo-contenitore e la necessità di traslocare (e intanto allogare provvisoriamente) gli immensi archivi storici. Ma, nel momento in cui scriviamo, tutto fa pensare a una soluzione indolore, con l’Alinari tramutata in pubblica istituzione con la benedizione del Mibac, e il suo imperdibile patrimonio tutelato, insieme, dalla Regione Toscana e dal Comune di Firenze. A proposito di sinergie…