Una rotonda a tutto gas

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Che imbarazzo, l’antico gasometro.Che farne?

di Roberto Curci

 

Assieme al famoso ponte coperto in legno, il Kapellbruecke del XIV secolo, c’è a Lucerna – molti lo sapranno e dunque non si scopre granché di nuovo – un’attrazione turistica fra le più curiose e singolari: il Bourbaki Panorama, un vasto edificio al cui interno si snoda, circolare così come la struttura ospitante, un dipinto avvolgente a 360 gradi realizzato nel 1889 dal pittore Edouard Castres. In 112 metri, per 10 di altezza, l’improba fatica dell’artista svizzero visualizza in mille dettagli stipati nella madornale visione d’assieme la drammatica avventura dell’Armata orientale francese – comandata dal generale Bourbaki – che, nella guerra franco-prussiana del 1870-’71, subì una rovinosa sconfitta e in pieno, gelido inverno dovette ripiegare per l’appunto in terra elvetica, dove trovò asilo, assistenza e conforto prima di essere fatta rientrare in patria.

Ma che c’azzecca, direte voi, la bizzarra faccenda con le rubrichine del Ponte rosso? Tanto più che al mondo non mancano certo insigni edifici, palazzi o templi a pianta circolare, da Stonehenge al Pantheon o alla Rotonda palladiana, e via lungamente elencando. E tuttavia colpisce, nel caso di Lucerna, la mirata “destinazione d’uso”, a metà museale e a metà ludica, fatta cioè per affascinare adulti e bimbetti e per costituire motivo, certo, di suggestiva rievocazione storica ma altresì di gustoso richiamo per i visitatori della città svizzera.

Al sottoscritto il ricordo del Bourbaki Panorama è riaffiorato per associazione d’idee, riflettendo con vivo interesse sul dossier che l’architetto Roberto Dambrosi ha redatto a proposito di quelli che ha voluto definire, a ragione, i “buchi neri” di Trieste: siti dismessi a vario titolo, abbandonati a se stessi, e dunque consegnati al degrado e all’oblio, più o meno ingiustamente e colpevolmente. Da palazzi quali il Carciotti, il Kalister, la Rotonda (toh!) Pancera, fino alle casermone di via Rossetti e ai tanti “vuoti” del Porto Vecchio.

Tra i novanta “buchi neri” censiti spicca – e riporta appunto alla mente il “memoriale” lucernese per la sua tonda configurazione – il Gasometro del Broletto: quasi un’epitome delle velleità (mai trasformatesi in volontà) di recupero e valorizzazione di troppe realtà architettoniche triestine. Costruito dall’ingegnere civile Francesco Buonaffi nel 1901 per conto dell’Azienda Comunale Elettricità Gas Acqua di Trieste (l’Acegat insomma), funzionò ottimamente fino alla seconda guerra mondiale, quando fu chiuso per non subire disastrosi bombardamenti alleati in una zona industrial-navale ad alto rischio, venendo riaperto ancora per qualche anno nel 1947.

Dai primi anni ’50, con la sua cupola alta una novantina di metri, giace – massiccio, vuoto e inerte – adagiato tra Sant’Andrea e Chiarbola come un’astronave aliena, oggetto delle occhiate distratte di chi percorre in auto via D’Alviano o via Svevo e probabilmente ignora la sua valenza di monumento di archeologia industriale e di “bene di interesse culturale”, qualifica attribuita nel 1988 ma rimasta lettera morta quanto a reali prospettive di restauro e riuso.

Beninteso. Ci hanno pensato in tanti a che fare dell’importante struttura, esemplata – all’epoca della costruzione – su analoghi modelli austriaci e tedeschi: tanto da somigliare molto da vicino ai quattro gasometri viennesi eretti anch’essi ai primi del ‘900 nella zona di Simmering. Sennonché vent’anni fa quegli enormi depositi sono stati puntigliosamente ristrutturati e sono divenuti un vivace centro d’attrazione residenziale, culturale e commerciale. Il povero Gasometro del Broletto, invece, giace negletto, mentre vari reggitori cittadini (ma anche diversi operatori, culturali e non, che da decenni ci hanno messo gli occhi sopra) ne ipotizzano le più disparate destinazioni: da maxi-discoteca a planetario, da centro di aggregazione giovanile a multicinema, da location per l’arte contemporanea a museo dell’astronomia e perfino a palestra di arrampicata indoor (si veda il sito Gasometro Trieste Climbing).

Che la possibile riconversione sia impresa ambiziosa e assai costosa è pacifico. Ma che, una volta di più, a proposito di qualsiasi progetto davvero innovativo e perfino ardito, Trieste sia incapace di cavare un ragno dal buco e si balocchi con idee su idee, senza mai giungere a un sensato capolinea e preferendo rinviare, rinviare, rinviare, fino alla fisiologica consunzione ed estinzione per sopravvenuti limiti d’età di qualsiasi meritevole manufatto, è constatazione tanto ovvia quanto ciclicamente sconfortante.

“Buchi neri”, appunto. Quattrini che (forse) non ci sono, idee che collidono e si tramutano in annose e sterili polemiche, burocrazie varie e la tradizione tutta locale dei bastoni infilati fra le ruote: un po’ di tutto ciò complotta per far sì che in questa città il solo pensiero di un Bourbaki Panorama risulti purissima utopia.

Se poi si volesse aggiungere qualche ulteriore recriminazione all’elenco delle “distrazioni” locali nei confronti delle cose pubbliche di rilevante pregio, è difficile sottacere il tristissimo destino toccato – per indecisioni, procrastinazioni, progressiva incuria, noncuranza di precise disposizioni testamentarie – a quell’ex gioiellino che era Villa Stavropulos, al 35 della Strada Costiera, divenuto un rudere svuotato di tutto e comunque ancora vandalizzato. Davvero non lo meritava, quell’emerito collezionista-mecenate di nome Socrate, colpevole peraltro di aver sottovalutato l’endemica ignavia cittadina, qui tuttavia sconfinante nella malafede. Fu la sua fatale cicuta…