Omaggio a Sergio Scabar

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Il grande fotografo scomparso mentre è in corso a Gorizia, “Oscura camera” (1969-2018), mostra fotografica antologica

di Paolo Cartagine

 

Sarebbe stato tutto pronto per parlare di “Oscura camera” (1969-2018), Mostra fotografica antologica di Sergio Scabar progettata dall’autore, curata da Guido Cecere e Alessandro Quinzi a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia. Ma Sergio Scabar, dopo un lungo decorso causato dall’amianto, e Guido Cecere, che ha scelto di lasciarci per sempre, l’8 agosto scorso se ne sono andati. Non senza una vena di tristezza, visitare la mostra è un ulteriore modo di rivolgere loro un affettuoso pensiero entrando in ciascuna delle quasi trecento fotografie a colori e in bianco-nero accolte dall’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, inserite anche in un pregevole catalogo, ed esposte fino al 13 ottobre 2019.

Scabar e Cecere, entrambi protagonisti della Fotografia di questa regione: del primo si contano numerose esposizioni in Italia e all’estero, acquisizioni di collezioni pubbliche e private, pubblicazioni, recensioni e riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio Friuli Venezia Giulia Fotografia conferitogli nel 2003 dal Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia di Spilimbergo. Premio che nel 2009 aveva ricevuto pure Cecere, pordenonese di adozione, affermato docente, critico e fotografo.

 

Scabar, nato nel 1946 a Ronchi dei Legionari, nel ’64 si era avvicinato da autodidatta al mondo della fotografia. Per un decennio aveva partecipato a concorsi in Italia e all’estero con racconti a tema e reportage. Di questo periodo emergono in particolare due lavori. 31 ottobre 1975, ore 11.21 – Trieste, via della Madonnina che è una narrazione cronologica sequenziale dell’ordinaria quotidianità vissuta dai passanti in una via cittadina, con foto occultate da panni neri sollevabili a mo’ di sipario. L’altro, è un delicato documento sugli ospiti dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia del dopo Basaglia.

Poi Scabar si era spinto verso altri orizzonti di studio, tra cui le imperdibili Autoanalisi del ’78, e Stracci del 1980-81 racconto non lineare a configurazione asimmetrica. Ma l’apice arriva negli anni novanta con il Teatro delle cose, riverberato in continuità fino al 2018 con Silenzio di luce e altre incisive estensioni consimili, che nella Mostra occupano giustamente un posto di rilievo. L’autore aveva scelto gli oggetti da fotografare e ne aveva curato la messa in scena con una regia di grande rigore formale. Questi lavori – impreziositi da cornici disegnate e realizzate dall’autore – diventano inimitabili perché materializzati in esemplari unici, irriproducibili, costituiti da stampe alchemiche ai sali d’argento nate da uno speciale e segreto trattamento messo a punto da Scabar stesso. Per apprezzarne il contenuto, al visitatore è richiesta un’osservazione lenta per adeguare, in primis, la capacità percettiva degli occhi a un’illuminazione ambiente necessariamente tenue, la sola però adatta a consentire la completa assimilazione visiva della scala tonale a debole contrasto, posta ai margini dell’ombra. Tempo e luce, impalpabili materie prime della fotografia catturate dalla pellicola in fase di ripresa, erano stati poi da Scabar sapientemente depositati sulla carta sensibile e trattenuti dai sali d’argento attraverso la manualità del suo paziente lavoro di continua reinvenzione nel buio della camera oscura. Gli esiti si spingono oltre la dimensione referenziale e vanno assaporati ripensando alle note riflessioni di Walter Benjamin ne Lopera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

Dunque, dalla metà degli anni ’70 l’autore aveva escluso la figura umana dalle sue immagini e, con un deciso cambio di rotta, era approdato al mondo degli oggetti e alla natura come mezzo di indagine concettuale in inscindibile simbiosi con la sperimentazione. Una necessità interiore per saggiare la risposta dei materiali spingendo i procedimenti chimici oltre i bordi della consuetudine operativa, congiuntamente alla ricerca di nuove possibilità espressive.

Per chi ama la Fotografia, Oscura camera, sotto diversi profili, è quindi un’appagante percorso di lettura, non solo estetica, per avvicinarsi a un autore che, senza cedimenti all’effimero delle mode e con l’abilità dello sguardo profondo, ha proposto risposte intelligenti e personali agli stimoli del mondo esterno.

All’osservatore attento non può sfuggire che qualsiasi opera o azione dell’uomo, in diversa misura e con differenti modalità è, di fatto, una narrazione (ancorché parzialmente inconscia) il cui soggetto è l’autore. Al riguardo sosteneva infatti Paul Watzlawick: “non si può non comunicare, ognuno comunica quello che è, per cui l’opera contiene l’autore”. Oggi, anche la fotografia è considerata una modalità di comunicazione. Tipologia che rinvia direttamente ai contorni visibili delle cose e non vincolata da traduzioni, però filtrata dall’inalienabile originalità dei processi interpretativi dei rispettivi fruitori nell’invalicabile “principio di non esaustività”.

In pratica, la lettura di una fotografia è una ricognizione visiva ciclica, ripetibile a piacere dal generale al particolare per tornare all’insieme. Vladimir Nabokov sottolineava che «un buon lettore è colui che riconosce e avvalora i dettagli» per scovare interrelazioni e collegamenti di senso che portano dalla forma al contenuto. Perché il valore di un’opera non consiste solo nelle caratteristiche tecniche ma risiede nella capacità dell’autore di inserirvi le sue intenzioni per farcele comprendere. E da qui – sollecitata in maniera ineludibile da questa mostra – si diparte la cooperazione soggettiva del lettore (nessun lettore è una pagina bianca), una collaborazione antitetica all’odierno atteggiamento di frettoloso monologo dall’occhiata distratta, e di a-critica presa d’atto dell’informazione seriale in cui si inscrive anche una parte dell’attuale fotografia di consumo.

Il messaggio che Scabar ci consegna è primariamente inserito nelle sue foto, ma il fruitore consapevole potrà constatare che la piena intelligibilità è fortemente correlata all’allestimento/montaggio, un’impaginazione dove gli interspazi fra le foto diventano punteggiatura, un modo per sottolineare e separare temi, sguardi e sensazioni.

Oscura camera contiene perciò tanti snodi importanti, in quanto il filo conduttore, costituito da eclettismo e sperimentalità, ha numerose e inusitate diramazioni che permettono di esplorare il rapporto fra autore-manufatti per coglierne la ricchezza e la complessità.

E proprio per ribadire la valenza della Mostra – la cui strutturazione invita a scrutare più in là, a superare il visibile per entrare nel tempo nascosto delle immagini e incontrarvi i segni dissimulati – sarebbe affascinante poter scoprire se le foto di Sergio Scabar riconducono ai “libri impenetrabili” de La biblioteca di Babele di Borges, la cui lettura richiederebbe un tempo indefinito, o forse infinito, e la cui decifrazione esatta sarebbe inaccessibile.

Perché, come ci ricorda Thomas Mann, «il molteplice, non il semplice, prepara la comprensione del mondo».