Marcuse e il 68: l’uomo a una dimensione

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Un saggio sugli effetti deleteri della società industriale avanzata sull’individuo

di Stefano Crisafulli

 

«Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico». Con questo folgorante incipit, Herbert Marcuse (1898-1979), filosofo tedesco che ha fatto parte dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte negli anni ’30 (la cosiddetta ‘Scuola di Francoforte’), diede inizio ad un saggio che fu anche un grande successo editoriale: L’uomo a una dimensione (1964). In storia della filosofia si parla della Scuola di Francoforte proprio per identificare quel gruppo di economisti, sociologi, psicologi e filosofi, come Horkheimer, Adorno, Fromm e lo stesso Marcuse che fecero parte di quell’Istituto e collaborarono tra loro. Principale obiettivo della Scuola di Francoforte era quello di smascherare le contraddizioni della società in cui vivevano, sviluppando una teoria critica. Con l’avvento del nazismo Marcuse si rifugerà negli USA e, dopo aver pubblicato Eros e civiltà nel 1955, tornerà in Germania solo negli anni ’60. Nel 1966 verrà nominato docente onorario dell’Università di Berlino Ovest. Con le sue idee, fu ispiratore del movimento studentesco del 1968, anche se poi, negli ultimi anni, il legame si allenterà, a causa di divergenze politiche e mutamenti storici.

L’uomo a una dimensione è il testo che ha maggiormente ispirato i movimenti studenteschi del 1968. Marcuse descrive, in quest’opera, gli effetti deleteri della società industriale avanzata sull’individuo. L’uomo a una dimensione si identifica, infatti, con l’individuo alienato, che crede non ci siano altri modi possibili di esistere al di fuori del sistema in cui vive, poiché è stordito dalla ‘giostra dei consumi’ e da bisogni fittizi, tanto da ritenere il pensiero critico inutile e obsoleto. Il capitalismo infatti soddisfa, oltre ai bisogni fondamentali, anche e soprattutto bisogni falsamente indotti, come il desiderio di un elettrodomestico, di un’automobile nuova o, nel nostro tempo, dell’ultimo gadget tecnologico. Proprio per questo, «una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata […] può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettate come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo». Ma in questo modo «la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria», in quanto è un’organizzazione economico-tecnica che «opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti’». Braccio armato di questa manipolazione sono i mass media: basti pensare alla pubblicità e alle trasmissioni televisive che da sempre hanno avuto un ruolo fondamentale nel riprodurre, promuovere e ribadire la stratificazione sociale e la società dei consumi e di cui internet e i social network sembrano, oggi, i degni eredi.

Per Marcuse l’apparato produttivo della società industriale avanzata tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non solo gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni, per mezzo della tecnologia. Essa, infatti, serve a istituire nuove forme di controllo sociale, più efficaci e piacevoli e non è neutra, come spesso viene dichiarato da chi, nella migliore delle ipotesi, manca di capacità critica: non è un caso che – afferma il filosofo -, storicamente abbia avuto come obiettivo il controllo della natura. Lo dimostra il fatto che oggi, molti anni dopo, la tecnologia sia riuscita a diventare essa stessa un bisogno: l’ultimo modello di computer o di cellulare vanno a ruba, con gente che fa la fila davanti ai negozi e ormai sembra impossibile non essere connessi alla rete. E chi non lo fa è visto con sospetto. Eppure, grazie alla tecnologia, la società riesce a soddisfare i bisogni umani. Ma se la società soddisfa i bisogni degli individui, a che serve il pensiero critico? Non serve più e così l’autonomia e l’anticonformismo vengono sostituiti dal pensiero unidimensionale. È necessario, però, chiedersi se questi bisogni siano veri o falsi. Per Marcuse la maggior parte di quelli che noi riteniamo bisogni sono in realtà falsi bisogni o bisogni indotti: ad esempio divertirsi, consumare beni in modo compulsivo, rilassarsi (in effetti, ci si rilassa da qualcosa che ci rende alienati: ma allora perché non liberarsi direttamente dall’alienazione?). Gli unici bisogni veri sono quelli primari: cibo, vestiti, casa. Dunque i bisogni falsi andrebbero eliminati, opponendo ad essi e alla società che li sostiene il ‘grande rifiuto’. Ma chi lo farà? Forse, teorizza Marcuse, gli intellettuali non integrati e gli studenti oppure i più poveri, i reietti della società e i dannati del terzo mondo. Non certo i lavoratori salariati i quali, contrariamente alle tesi di Marx, sono ormai talmente immersi nell’ideologia dominante da non riconoscerla come tale: è questo il pensiero a una dimensione. E, a tutt’oggi, ci siamo dentro fino al collo.