Il sistema della superbanana

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Quanto più è alto il prezzo di vendita, tanto più l’opera sarà un’opera d’arte?

di Francesco Carbone

 

Succede – chissà perché mai a noi – che nel bric-à-brac della soffitta del nonno si trovi un quadro stranamente bello che si rivelerà un Caravaggio, o che la statua comprata al mercatino delle pulci per adornare il giardino abbia un quid che farà scoprire che si tratta di un Canova.  Ma se si trovasse nella stessa soffitta un orinatoio modello Bedfordshire? Impossibile capire che è un’opera d’arte – per tanti la più cruciale del XX secolo – di Marcel Duchamp. E ci sarebbe da mangiarsi le dita: a Sutheby’s, una delle otto copie della sua Fontana è stata venduta nel 1999 a 1,7 milioni di dollari. Chissà quanto costerebbe oggi.

Un caso molto più recente è la banana che, nel 2019, Maurizio Cattelan ha esposto attaccata al muro con un pezzo di scotch. Le banane hanno il difetto di marcire, ma il mondo è pieno di banane che possono prendere il posto del prototipo. Ovviamente Cattelan può firmare quante banane vuole: non sarebbero neppure dei falsi. Se interessa, Ugo Nespolo ha scritto cose interessanti sull’artista «primo falsario di se stesso» (Per non morire d’arte, Einaudi 2021).

Ma veniamo al punto, e cioè ai soldi: una delle banane di Cattelan è stata donata al Guggenheim Museum di New York da un anonimo che l’aveva pagata 150.000 dollari. Non è il caso di scandalizzarsi: lo scandalo fa salire il prezzo. L’opera s’intitola Commedian: il titolo dovrebbe far pensare. Ne erano stati esposti diversi esemplari all’Art Basel Miami: tutti venduti (allora a 120.000 dollari a banana). Le quotazioni al momento sono in rialzo.

Ogni opera d’arte, avrebbe detto Michel Foucault, è tale perché genera discorsi. Lo stesso aveva scritto l’irridente Tom Wolfe: il destino dell’arte contemporanea è «diventare niente di meno che pura e semplice Letteratura» (Tom Wolfe, The painted word, Farrar, Straus & Giroux 1975). E la banana di Cattelan ha generato la sua dose di letteratura. Per esempio, è un fatto che ne richiami un’altra: quella che Andy Warhol, nel 1967, realizzò per la copertina del primo disco dei Velvet Underground. Nelle edizioni originali dell’album, il frutto poteva essere sbucciato; la buccia era una pellicola adesiva che, se tolta, rivelava una banana rosa. Tutti chiamano l’LP dei Velvet Underground Banana Album. Ovviamente oggi ogni copia vale una fortuna.

Cosa è accaduto da Duchamp a Cattelan? Un diligente professore di storia dell’arte ci spiegherebbe quello che tutti sappiamo: che l’opera d’arte concettuale non è la banana; ma l’idea, il gesto, consapevole e dunque creativo, di straniare un oggetto qualunque in un contesto, appunto, artistico. Ovviamente non è una cosa da nulla, e ci si ragiona da allora (la Fontana di Duchamp è del 1917). Leggiamo da un articolo del 2008 uscito sull’Indipendent: con la sua Fontana, Duchamp «recise per sempre il legame tradizionale tra il lavoro dell’artista e il valore dell’opera».

Quando Duchamp propose Fontana alla Society of Independent Artists di cui era presidente, gli altri membri si rifiutarono di esporla: un orinatoio non poteva essere arte. Duchamp si dimise e Fontana apparve solo in una fotografia nel secondo e ultimo numero della rivista dada The Blind Man, scatenando il putiferio di cui sentiamo ancora le conseguenze.

Duchamp era un buon giocatore di scacchi. L’orinatoio non è arte? Ma allora cos’è arte? Imbarazzo. Scacco matto in due mosse. Walter Benjamin scriverà nel 1936 che con i dadaisti «l’opera d’arte diventò un proiettile» (L’opera d’arte nell’età della riproducibilità tecnica, Einaudi 2014): Fontana fu il proiettile che fece più centro di tutti.

Torniamo a oggi.

Su chi stabilisca cosa sia arte e quale sia il suo valore è intervenuto Achille Bonito Oliva su Robinson di Repubblica: «pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini, vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista. […]. Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico le opere in sé non avrebbero valore». È il sistema che conferisce all’opera «un plusvalore culturale [che] travalica anche la qualità stessa dell’oggetto […] e la modifica in una sorta di superarte». È dunque il sistema che fa della banana una superbanana.

L’aspetto interessante del ragionamento di Bonito Oliva non è il suo ribadire (lo ha fatto tante volte) che l’arte è il sistema dell’arte. Basta rileggere: per lui esiste anche e ancora (!) una differenza tra la «qualità» dell’opera e il «plusvalore» che gli conferisce il sistema! Ma resta non chiarito cosa sia questa «qualità», diciamo intrinseca, di un’opera d’arte. Magari fosse un problema solo di Bonito Oliva! Intanto proviamo a tradurre la domanda: cosa avrà quella banana, la banana di Cattelan, per poter diventare una superbanana? Facciamo spoiler: nulla.

Del Lago e Giordano scrivevano – ottimisti come Bonito Oliva – che, prima delle cornici fornite dal sistema, «comunque qualcosa (corsivo nostro) da incorniciare come arte ci deve pur essere» (Mercanti d’aura, Il Mulino 2006). E questo qualcosa, posto che esista, cos’è? L’articolo dell’Indipendent, che abbiamo citato prima, chiama questo qualcosa: il lavoro dell’artista.

Ammesso che il puzzle funzioni, abbiamo dunque un «lavoro» che ha una sua «qualità» che il «sistema» trasforma in «plusvalore»… vedi tu dove ricompare la descrizione del capitalismo del vecchio Marx! Ma è Bonito Oliva che ha azzardato il termine «plusvalore».

Facciamo per cinque minuti i marxisti: con parole auliche Bonito Oliva mistifica, come gli economisti classici, una realtà brutale: chiama «condizione filosofica» dell’arte una condizione economica, e «plusvalore» il profitto. E definisce sistema il mercato, lui sì capace di trasformare il «valore d’uso» di una innocente banana nel «valore di scambio» che fa incassare a Cattelan e al sistema 150.000 dollari. Qui l’economia coincide con l’estetica: quanto più è alto il profitto, tanto più l’opera sarà un’opera d’arte.

La sorella gemella del capitalismo, e quindi di quella sua sotto-provincia che è il mercato dell’arte, è l’hybris, la tracotanza di ricavare il massimo profitto da qualunque cosa: si avrà una pura estasi quando, come a Wall Street, il profitto sarà ricavato da niente: coi junk bond, i subprime, i CDO, ecc.

Alla smaterializzazione e finanziarizzazione dell’arte siamo arrivati da tempo. Nel 2021, lo scultore Salvatore Garau ha venduto Io sono, a 15.000 euro. Il compratore ha vinto un’asta partita da 6.000 euro. Io sono non è niente: è uno spazio vuoto venduto con un certificato di autenticità e un foglietto d’istruzioni (proprio come la banana di Cattelan). Tutti vediamo che tra il nulla di Garau e la banana di Cattelan non c’è una differenza essenziale, se non il prezzo.

Tutto il mercato finanziario è concettuale: vende ipotesi di futuro, specula su catastrofi possibili, scommette su merci ancora inesistenti, ecc. Nel fondamentale The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2013), Matthew McConaughey insegna al neo-broker Leonardo Dicaprio che ai clienti non si vende mai una cosa ma sempre e solo un concetto: «a brilliant idea. A special idea!». Potremmo dire: una superbanana.

Damien Hirst, Jeff Koons (che era davvero un broker), ecc. piazzano idee che fanno sentire ricchi – McConaughey chiarisce: «ricchi sulla carta» – i compratori; mentre i brokers «portano a casa denaro vero con le commissioni, figlio di puttana!».

Tutto questo Andy Warhol lo capì prima e meglio di tutti: se l’opera d’arte non è ormai che il mezzo per realizzare denaro, è il denaro l’opera, e il sistema del denaro il sistema; e vendeva banconote da un dollaro che aveva firmato con un pennarello. Prezzo attuale di ogni suo dollaro: tra 800.000 e un 1,2 milioni di dollari.

 

Maurizio Cattelan

Commedian

2021