La veglia

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di Giuseppe O. Longo

 

Avevo chiesto in tutte le locande, ma non avevo trovato un posto per dormire. Era ormai sera, il freddo aumentava. In cima a un poggio sorgeva solitaria una casa e pensai di chiedere ospitalità. M’inerpicai per un viottolo faticoso, sorpassai una baracca, sulle assi qualcuno aveva scritto Waltraut ist eine Hexe. Picchiai a lungo col battente, finché un ciabattare annunciò l’arrivo di qualcuno. Cominciai ed esporre la mia richiesta alla vecchia che si era presentata, lei non mi fece nemmeno finire, si scostò e mi fece entrare in un camerone appena rischiarato da un lume e dai bagliori di un camino. L’aria era soffocata da un tanfo greve e composito che mi prese alla gola. Entrò una ragazza che si mise a parlare con la vecchia in una lingua gutturale di cui non capivo niente se non qualche parola qua e là, Waltraut, gestorben. La vecchia mi scrutava con occhi pungenti, da passero e ogni tanto apriva la bocca sgangherata in un sorriso faticoso. La ragazza scomparve e poco dopo rientrò con un piatto e un fiasco di vino. Mi indicò una sedia e a gesti m’invitò a mangiare il pane e il formaggio e a bere il vino. Nonostante il puzzo di quello stanzone, fui contento di rifocillarmi e ignorai le striature verdognole del formaggio. Il vino era aspro, quasi acetoso, ma mi rinfrancò. La vecchia stava in piedi di fronte a me e approvava col capo, ogni tanto sorridendo ed emettendo qualche suono strozzato, cui la giovane rispondeva a monosillabi. Entrò un’altra vecchia, mi scrutò a lungo e prese a parlare alle altre due, sempre con quelle vocali di gola e quelle consonanti raspose. Ricevute le risposte, la nuova venuta disse Waltraut e spostava lo sguardo da me alle sue compagne con fare allusivo. La prima vecchia sedette e dopo un po’ reclinò il capo e parve addormentarsi. Emetteva un suono strangugliato e un filo di bava le colava sul grembiale nero. La giovane mi disse qualcosa e visto che non capivo, afferrò un lume, mi prese per un braccio, mi fece alzare e mi condusse dentro le profondità della casa per lunghi corridoi e anditi bui. Il vino faceva il suo effetto, ero in una disposizione ilare, quasi gioiosa e, sebbene anche la ragazza emanasse quell’afrore crudele, la guardavo con tenerezza e mi lasciavo guidare. Superammo la porta spalancata di un gabinetto, e la sozzura che vidi alla luce di un paio di candele mi provocò una lieve nausea. Continuammo il nostro viaggio nelle viscere di quell’edificio, che sembrava dilatarsi a dimensioni insospettate. Imboccammo un corridoio rischiarato da radi lumini. A destra e a sinistra vi erano porte serrate e la ragazza le indicava mormorando parole strozzate, come se volesse spiegarmi qualcosa. A un certo punto cominciai ad avvertire un odore di cera, e mi parve di udire un mormorio lontano, come di preghiere o di suppliche che andavano e venivano per le folate di un vento che sorgeva dal nulla. La ragazza si fermò davanti a una di quelle porte: qui le giaculatorie si udivano distintamente, per quanto al solito non ne capissi una parola, a parte il nome Waltraut ripetuto ogni tanto da una voce più acuta. Adesso ero preda di un’inquietudine cattiva. La giovane aprì l’uscio, mi fece cenno di entrare e si chiuse la porta alle spalle. Al centro della stanza sorgeva un catafalco coperto di un drappo nero, e sopra giaceva il cadavere di una donna illuminato da quattro ceri accesi. La mia accompagnatrice disse di nuovo Waltraut. Io ero pietrificato, non sapevo che cosa pensare. Intorno al catafalco si assiepava una piccola folla ammutolita di vecchie prefiche, che si erano immobilizzate al nostro ingresso. La giovane batté le mani e le vecchie uscirono in silenzio. Il mio sguardo non si staccava dal cadavere di Waltraut, la strega. La giovane mi spinse verso un angolo della stanza, m’indicò una branda e disse schlafen. Io, senza opporre resistenza, mi sdraiai su quel giaciglio e quando udii che la porta si chiudeva e la chiave girava nella toppa, mi dissi, No, no, così no…