Luigi Ghirri, il suo paesaggio italiano

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Foto che insegnano a ragionare, non solo «copia del visibile»

di Paolo Cartagine

 

Se potessimo incontrare Luigi Ghirri ci troveremmo di fronte a un uomo un po’stempiato, di bassa statura e corporatura media, vestito senza ricercatezza, sguardo mobile e curioso dietro lenti spesse, instancabile fumatore, disponibile al dialogo, educato e affabile con l’interlocutore.

Una persona semplice e sensibile che suscitava simpatia per la sua carica umana, e che non faceva mai pesare la sua fama di autorevole protagonista internazionale del rinnovamento del linguaggio fotografico del secondo ‘900, l’ultimo della fotografia analogica prima del digitale e tuttora attuale.

Nato nel 1943 a Scandiano (RE), Ghirri ha sempre vissuto in Emilia tra Modena, Reggio e Sassuolo, anche in paesini sperduti nella campagna consoni alla sua indole appartata ma non solitaria.

Dal termine della guerra fino agli anni ’50 la sua famiglia, assieme a molte altre, era stata sfollata a Sassuolo nell’ex-collegio dei Gesuiti, immerso in un vasta tenuta alberata. Lì imparerà ad amare la natura e le piccole cose, apprenderà i valori del rapporto interindividuale. Saranno i tre capisaldi della sua vita riscontrabili in tutto il suo «artigianato serio» di fotografo e operatore culturale.

Dal matrimonio con Anna Maselli nascerà Ilaria, mentre Adele arriverà poi da quello con Paola Borgonzoni, promotrice dei suoi lavori.

Lasciata la professione di geometra si era dedicato alla Fotografia dopo aver visto le immagini dello statunitense Walker Evans. Inizierà a Modena nel ’72 la sua carriera con la mostra Ghirri, fotografie 1970-’71.

Perché, ancora oggi, Ghirri è considerato uno dei fotografi più influenti?

Per una ragione fondamentale. Ha posto al centro della Fotografia lo “sguardo naturale”, cioè il modo con cui istintivamente ciascuno di noi osserva quello che lo circonda, in quanto «l’atto del guardare è il primo passo per comprendere il mondo».

Tutti gli esseri umani hanno in comune questa risorsa intrinseca, ma Ghirri la ha trasformata in asse portante del pensare per immagini sottraendola all’oscurità degli automatismi scontati.

Quindi, per Ghirri, anche situazioni quotidiane e cose qualsiasi hanno in ogni momento uno specifico significato individuale degno di nota, e nelle foto è indispensabile la visibilità dell’apporto soggettivo dell’autore, un “marchio di fabbrica” unico, riconoscibile da inquadrature e temi.

Allora la fotografia diviene un percorso umano fatto di associazioni mentali, sensazioni, impressioni, risonanze, ascolto, concentrazione, lentezza, un viaggio a occhi aperti dentro se stessi per sentirsi in armonia con l’ambiente e «guardare per vedere oltre la percezione retinica dei segnali esterni» e «trasporre il proprio passato nelle immagini di adesso».

Questa è la novità e l’originalità dell’apporto di Ghirri, svolta radicale della Fotografia da cui non si è più tornati indietro.

Come nascevano i suoi lavori?

Individuati scopo e tematica, esplorava il territorio senza «l’assillo degli istanti decisivi pertinenti a un altro tipo di fotografia», osservava attorno con curiosità «perché ci sono sempre aspetti interessanti, pure nei dettagli minuti». Riteneva il paesaggio urbano e quello non antropizzato «il volto del mondo in cui viviamo», compresi i “non-luoghi” prodotti dalle irreversibili trasformazioni dell’ambiente.

Collegava infine queste immagini mentali per stabilire nuove connessioni e ricavare idee inedite.

Solo dopo, dalla borsa prendeva la macchina fotografica per scattare.

Per trasporre nelle foto a colori il concetto di “sguardo naturale” usava (lui che amava la Storia dell’Arte) la macchina fotografica in prospettiva frontale rinascimentale – che è un procedimento per riprodurre fedelmente «il reale come osservato dall’occhio umano» – personalizzando la ripresa con una serie di accorgimenti ad hoc.

E dato che «ogni cosa si offre allo sguardo da una posizione precisa», attribuiva grande importanza al fuori-campo (consapevole cancellazione dello spazio non rappresentato e ormai inenarrabile) in modo da sollecitare «l’immaginazione del lettore affinché si interrogasse anche sul senso del fotografare». La realizzazione delle sue foto, come i frutti, aveva bisogno di tempo per maturare.

Il risultato? Immagini minimali e raffinate con evidenti cenni autobiografici perché, come sosteneva Pessoa, «il paesaggio è uno stato d’animo». Foto che insegnano a ragionare, non solo «copia del visibile».

Ghirri prediligeva i paesaggi del Po, le località della pianura, la luce diffusa dei cieli coperti e la nebbia che, attenuando cromatismi e distanze, lo avvicinavano al periodo dell’infanzia.

Ma aveva affrontato anche altri argomenti: interni di vecchi edifici, città (Trouver Trieste nell’85, a Lubiana le opere di Plečnik), anonime periferie dopo la massiva edificazione del boom economico, l’atelier di Giorgio Morandi a Bologna, Versailles (per citarne alcuni).

Considerava le sue fotografie «soglie attraverso cui intravediamo qualcosa di più profondo». Ma anche «appunti visivi sparsi» da cogliere senza la mediazione del ragionamento che avrebbe soppresso la freschezza delle impressioni. Pertanto niente artifici tecnologici né rielaborazioni.

Il punto di arrivo: un attento montaggio delle sequenze, non necessariamente legato allo schema causa-effetto, «perché la narrazione nasce da accostamenti originali, non da manierismi e consuetudini, né da volontà pragmatiche o sovrastrutture».

Nell’insieme dei suoi indimenticabili lavori personali (fra cui Kodachrome, Esplorazioni sulla via Emilia, Atlante) nel 1984 si inserisce Viaggio in Italia. Ghirri aveva inventato e guidato un progetto collettivo (con testi di Quintavalle e Celati) chiamando a sé una ventina di fotografi, non solo italiani. Circa trecento foto lontane dagli alfabeti visivi datati del già detto e del già visto, un’imprescindibile testimonianza sulla perdita di identità del Bel Paese.

Purtroppo, alle prime ore del 14 febbraio ‘92 nella casa di Roncocesi (RE), dove abitava con Paola e Adele, è improvvisamente arrivata la sua notte più buia.

Non potremo più incontrare Luigi Ghirri, né sentirlo discorre di libri illustrati (che il padre falegname gli regalava quand’era bambino), della sua Volkswagen malandata che lo portava anche ai concerti europei di Bob Dylan, di quando fotografava le persone, delle lunghe amicizie con Lucio Dalla e con i fotografi Franco Vaccari e Mario Cresci, di letteratura cinema e pittura, della sua casa editrice Punto e Virgola, né di tanto altro ancora.

Della sua breve e intensa vita Ghirri ci lascia un grande Archivio, mostre e libri fatti di “immagini doppiofondo” che connettono tracce di memoria del tempo passato e di rilevamento al momento dello scatto. Una moderna lettura del territorio – frutto di un paziente lavorio per dare profondità alla semplicità – costruita con toni sommessi ma fermi, perché non poteva sottrarsi dall’impegno civile di interrogarsi sul «rapporto che unisce gli uomini alla terra».

 

sopra:

Trouver Trieste

Castello di San Giusto, 1985

sotto:

Trouver Trieste

via Aldraga, 1985