Fra realtà e distopia

di Fulvio Senardi

Chi avesse scelto di precipitarsi al cinema incuriosito da Leonardo Di Caprio in un ruolo non usuale in Don’t look up (gli fa corona un gruppo di attori iconici: Meryl Streep, Kate Blanchet e una Jennifer Lawrence dall’eterna espressione accigliata di chi è in procinto di scoccare l’ultima freccia agli Hunger Games) non se ne sarà certo pentito (e presto potrà guardare il film di nuovo da casa, su Netflix, per un po’ di ottimismo nel confinamento natalizio).

Guidati dallo sceneggiatore e regista Adam McKay che di comicità se ne intende (e, a quanto si capisce, anche della tragicomica deriva della società umana che si avvia verso il proprio annientamento nell’era della mercificazione totale, della distruzione dell’ambiente e della post-verità) gli interpreti danno vita ad una fabula distopica che assomiglia come una goccia d’acqua al mondo in cui viviamo.

La scoperta, compiuta da un’equipe di astrofisici non titolati, che un’enorme cometa avrebbe colpito la terra causando la probabile estinzione di ogni forma di vita, scatena una ridda di situazioni amaramente vere che spingono – miracolo dell’Estetico che rende godibile anche l’orrore – al riso. Un riso di riconoscimento e senza catarsi che ci rende ancora più padroni della nostra epoca, affinando, se possibile, gli strumenti intellettuali con i quali sondiamo l’inabitabile presente. Il tumore metastatico di cui siamo prigionieri, grazie a schermi, voci “autorevoli”, giornali che raccontano un mondo diverso da quello che vediamo ma funzionale agli interessi della politica e dell’economia, trova in Don’t look up uno specchio assolutamente veritiero. Dentro il tritacarne dei media, derisi dai negazionisti (che si organizzano nel movimento del “don’t look up”, ovvero del “non guardare in alto”, dove forse si potrebbe scorgere una traccia di quella cometa di cui negano l’esistenza), respinti e/o vezzeggiati dal potere in tutte le sue forme, incline a sfruttare in termini di consenso o di guadagno ciò che dal cielo sta per piombare in terra, i portatori della verità – ruolo assai pericoloso dai tempi di Cristo ad oggi – se la vedono brutta: chi abbandona la partita scegliendo la strada di un giovanilismo di ripiego (la dottoranda in astronomia), chi si lascia affascinare dalla ribalta dei talk-show (e dalla sensualità cinica della presentatrice, una Kate Blanchet che non mostra i cinquant’anni), ed è il caso del protagonista, un Di Caprio perfettamente padrone del ruolo e che, nel corso delle due ore e passa dello spettacolo, trasforma la sua maschera da quella di geniaccio imbranato che tira avanti a forza di tranquillanti ed anti-depressivi nella grinta di chi sa cosa vuole, e non esita a prenderselo.

Comunque, per concludere, la forza dell’establishment (i politici, i militari, i magnati dell’economia, ben rappresentanti dal finto mansueto Peter, tycoon delle telecomunicazioni – ci ricorda qualcuno? – e finanziatore della presidente USA) è così irresistibile da obbligare ad arrendersi chi si batteva per fare alzare gli occhi alle masse incredule. L’assoluta impotenza alla quale costringe un sistema irriformabile viene compensata, nella conclusione seria e faceta (e un filino didascalica), con il mito molto americano della famiglia: i nostri eroi moriranno nel disastro finale tenendosi per mano, seduti a tavola nell’intimità della casa come in uno dei tanti Thanksgiving Day.

Potrebbe disturbare, non ne sono abituati i fruitori di Un posto al sole o di Provaci ancora prof (ecc., ecc.), il montaggio fantasioso che arieggia l’assurdità dei video giochi, la futilità di Facebook e Whatsup con i suoi emotikon (la caricatura di comunità delle nostre società deflagrate), inanellando le vicende con commenti, didascalie, immagini (apparentemente) fuori contesto. Guardiamo con attenzione, questo è il nostro mondo (ma durerà poco).