LA CAPORETTO DEI SERBI

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Serbi 2serbi 4È il 4 ottobre 1915.

La Grande Guerra dura da oltre un anno.

È cominciata il 28 luglio 1914 con il bombardamento di Belgrado dal Danubio. A sparare i cannoni del “Bodrog” un monitore fluviale austroungarico (che esiste ancora, arenato vicino alla penisola sabbiosa di Ada Huja alla periferia della capitale serba).

Quella mattina dell’autunno 1915 il feldmaresciallo tedesco August von Mackensen lancia sedici divisioni austriache e tedesche contro il fronte serbo occidentale. Dopo tre giorni di violentissimi combattimenti, il 9 ottobre, cade Belgrado. Il 14 ottobre l’esercito bulgaro passa all’attacco a fianco degli Imperi Centrali, e occupa sistematicamente tutta la Macedonia, contesa tra i due Paesi nella seconda guerra balcanica del 1913. Nella prima, del 1912, serbi e bulgari erano alleati, assieme ai greci, contro i turchi.

Ricordiamo per inciso che le due guerre sono in qualche misura figlie della guerra italo-turca del 1911, che, rivelando la fragilità dell’impero ottomano, scatenò gli appetiti dei Paesi balcanici, che si erano appena liberati dal giogo della Sublime Porta.

Continuiamo a raccontare valendoci delle parole di Georges Castellan (Storia dei Balcani XIV-XX secolo), che scrive: “Il generale francese Maurice Sarrail, comandante delle forze alleate di Salonicco, tentò di correre in aiuto ai serbi accerchiati, ma disponeva di poche migliaia di uomini non sufficientemente equipaggiati. Verso la fine di ottobre i soldati bulgari si congiunsero con quelli di von Mackensen nel Kosovo, ancora una volta fatale ai serbi (il rimando è alla famosa battaglia di Kosovo Polje del 1389, quando i serbi sconfitti riuscirono a uccidere il sultano Murad I, n.d.r.). Schiacciati sulla montagna del Sar, ai serbi non restava che una via d’uscita: l’alta valle dell’Ibar, poi la strada dell’Albania settentrionale fino a Scutari e l’Adriatico. Dal 25 novembre 1915 al 20 gennaio 1916 continuò la ritirata, un vero e proprio calvario che lasciò un ricordo inestinguibile nella memoria collettiva serba.”

Prima di raccontare l’epopea di questa ritirata vediamo lo scenario in cui si svolse.

In seguito all’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando per mano del serbo Gavrilo Princip il 28 giugno 1914, l’impero austroungarico aveva dichiarato guerra alla Serbia, che si considerava il Piemonte dei Paesi slavi del Sud. Il sistema delle alleanze allargò immediatamente il conflitto: in nome della Triplice Alleanza la Germania entrò in guerra a fianco dell’Austria (Imperi Centrali) contro la Russia e la Francia, schieratesi con la Serbia. L‘Italia, alleata degli Imperi Centrali, non intervenne, poiché l’Austria aveva inviato l’ultimatum alla Serbia senza informarla, e aveva anche dato inizio a una guerra offensiva, in contrasto con quanto prevedeva il trattato della Triplice. Perciò Roma il 2 agosto 1914 aveva dichiarato ufficialmente la propria neutralità. Da quel momento imperversò nel Paese lo scontro tra neutralisti e interventisti.

Questi ultimi erano costituiti, stando a Mario Silvestri, autore del fondamentale La decadenza dell’Europa Occidentale (volume II, Einaudi edizioni 1977) “da un blocco di centro sinistra (socialisti riformisti, radicali, repubblicani), poche isole del centro liberale (tra cui il Corriere della Sera diretto da Luigi Albertini), la destra liberal conservatrice, i nazionalisti e una frazione estrema di anarco-socialisti”. Dall’altra parte c’erano i socialisti, la stragrande maggioranza del blocco liberale di tendenza giolittiana, inclusi i cattolici che non erano esplicitamente rappresentati, ma c’erano. “Azzardando un’ipotesi numerica – scrive Silvestri – è lecito credere che più di due terzi del Parlamento fossero neutralisti, mentre il Paese era ancor più neutralista del Parlamento”.

Mentre aumentavano le manifestazioni pubbliche degli interventisti (le cosiddette “radiose giornate di maggio”), alla maggioranza parlamentare neutralista, legata a Giolitti, si opponeva il governo interventista del primo ministro Antonio Salandra, forte dell’appoggio del re, che ottenne i pieni poteri dal Parlamento stesso. In forza di essi, il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, firmò un accordo segreto con gli Alleati (patto di Londra, 26 aprile 1915) e il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa.

Quando l’Italia intervenne nel conflitto, sul versante orientale la ritirata delle truppe zariste e la capitolazione della Serbia avevano permesso agli Imperi centrali il consolidamento di un fronte ininterrotto dal Baltico all’Egeo.

Questo dunque il contesto nel quale avviene la drammatica capitolazione della Serbia e quasi quattrocentomila persone si danno alla fuga: non soltanto i militari, ma anche quaranta-cinquantamila prigionieri austriaci (le cifre non sono chiare perché divergono a seconda delle fonti, però la quantità di persone in marcia era enorme), più le donne, i bambini, i vecchi e la massa di gente accodata ai soldati.

Una fuga disperata motivata dalla precedente occupazione austriaca, avvenuta l’anno prima: nel dicembre 1914 un’imponente armata dell’esercito austro-ungarico seguita da carri carichi di armi, munizioni e vettovaglie, comandata da Oskar Potjorek, già governatore della Bosnia Erzegovina e, almeno in parte, responsabile della tragica fine di Francesco Ferdinando, se non altro per la sua incompetenza, cominciò l’invasione della Serbia, ma il ponte sulla Sava (il fiume segnava il confine austro-serbo a Nord), sul quale doveva passare la colonna di uomini e mezzi diretta a Belgrado, era stato minato e, nella notte del 14 dicembre, fu fatto saltare. Caduta ogni possibilità di ritirata, un grossissimo contingente dell’esercito austro-ungarico si trovò isolato dal resto dell’armata, fatto che consentì ai Serbi di catturare oltre quarantamila prigionieri, tra cui mille ufficiali. L’offensiva austriaca continuò e le truppe serbe, guidate dal generale Radomir Putnik, supportate anche dalle forze del Regno del Montenegro, opposero un’ostinata resistenza obbligando gli austriaci a ritirarsi oltre frontiera. Dopo una controffensiva serba al confine con la Bosnia, le truppe di Potjorek lanciarono una nuova invasione il 5 novembre, riuscendo a impadronirsi di Belgrado. L’occupazione fu durissima nei confronti della popolazione civile che non dimenticò quei mesi tragici. Nel frattempo il generale Putnik fece arretrare lentamente le sue forze fino al fiume Kolubara, dove inflisse una disastrosa sconfitta alle truppe di Potiorek obbligandole ancora una volta alla ritirata; il 15 dicembre 1914 i serbi ripresero Belgrado, riportando la linea del fronte ai confini prebellici.

Le offensive austro-ungariche erano costate all’Impero la perdita di 227.000 uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre a un ampio bottino di armi e munizioni di vitale importanza per il mal equipaggiato esercito serbo. Potjorek venne destituito dal comando e si ritirò a vita privata. Sull’altro fronte, nonostante la vittoria, la Serbia ebbe 170.000 caduti durante la campagna, perdite enormi per il suo piccolo esercito ulteriormente aggravate dallo scoppio di una violenta epidemia di tifo (che fece 150.000 vittime tra i civili) e dalla grave carenza di generi alimentari anche perché la guerra era cominciata prima della stagione del raccolto.

Visti i precedenti, si capisce perché la seconda occupazione degli austro-tedeschi scatenò il terrore.

La lunga marcia di 710 chilometri percorsi in settanta giorni, viene raccontata dal giornalista e storico Silvio Bertoldi (1915: i serbi salvati dagli italiani, Corriere della Sera 27 luglio 1995, pag. 23): “Sono quasi quattrocentomila uomini in fuga: non soltanto l’esercito serbo, ma anche cinquantamila prigionieri austriaci che non si vogliono lasciar liberi, più le donne, i bambini, i vecchi, la massa di gente accodata ai soldati, in una delle tante Caporetto che si rinnovano ad ogni guerra. Vi sono due prospettive di marcia, per le sole vie rimaste aperte. La prima attraverso le montagne del Montenegro, fino a Scutari e a San Giovanni di Medua; la seconda in direzione di Durazzo e di Valona. Si sceglie questa. Attraverso l’Albania, varcando montagne coperte di neve, su sentieri fangosi, marciando senza soste per sfuggire agli attacchi dei partigiani greci e macedoni, tra popolazioni ostili, nel gelido vento dell’inverno, implorando pane e farina a pastori che difendono le loro misere proprietà coi fucili. Un’interminabile colonna si snoda verso ovest […]. C’è il vecchio re Pietro, settantenne, sdraiato su un carro agricolo tirato da un bue; c’è il generale Putnik che morirà dopo aver raggiunto la salvezza; c’è il principe Alessandro a dorso di mulo: e dietro di loro anche settantamila cavalli e 85 mila buoi, estremo patrimonio d’un esercito disfatto, che si tenta di sottrarre alla cattura da parte del nemico.

Quell’orda di disperati verrà falcidiata lungo il cammino dalle malattie, dalla fame, dalla fatica e lascerà dietro di sé una scia di morti, uomini ed animali. Sono state abbandonate le artiglierie, le polveriere sono state fatte saltare, si avanza sotto gli scrosci e la pioggia gelida non cesserà mai. Nell’ansia spasmodica della fuga verranno poi gettati anche i fucili, tutto l’equipaggiamento, perfino le baionette e le giberne. L’importante è riuscire a continuare a marciare, non cedere alla fame e non lasciarsi andare sfiniti sulla neve, aspettando la morte. In testa avanzano i prigionieri austriaci, dietro di loro le reclute serbe, infine il grosso dei soldati e in ultimo i profughi civili, quasi la metà del totale.”

Tra gli austriaci c’è un triestino, Valentino Semi, (Dall’Istria alla Serbia e alla Sardegna. Memorie di un prigioniero di guerra, Amicucci Editore, Padova 1961), inviato sul fronte serbo come altri giuliani, friulani e trentini italiani sudditi della duplice monarchia, che erano stati dislocati a oriente, in Galizia, o a Sud. Semi, viene fatto prigioniero durante la ritirata del 14 dicembre 1914, e dopo un anno di prigionia si trova tra le file dei dannati della lunga marcia. Annota in un diario la drammatica esperienza. “Le condizioni in cui si trovavano le strade erano indescrivibili. Dovevamo trascinarci avanti nella melma fino al malleolo, se volevamo evitare di arrampicarci ancora sui dorsi rocciosi della montagna. Il paesaggio era triste come la morte”. Semi attraversa con i suoi compagni di sventura territori abbandonati, villaggi bruciati, procurarsi da mangiare è quasi impossibile. In questo stato di denutrizione, tormentati dal freddo, i prigionieri sono vittime anche delle truppe serbe di scorta “costituite da reclute recentemente arruolate. Quando un prigioniero ritardava – sottolinea Semi – o per lo stato di debolezza pietosa stramazzava al suolo, veniva bastonato, malmenato e abbandonato in condizioni ancora peggiori lungo la strada”.

La situazione diventa di giorno in giorno più spaventosa, gli stenti e le malattie falcidiano prigionieri ma anche i guardiani. “Cadaveri dovunque […] corpi putrefatti. Sempre fame, sempre più fame, sempre minor forza. Ormai anche le poche provviste erano esaurite: un pezzo di pane al giorno era tutto il nostro cibo! Così, sotto gli stimoli della fame, il cui spettro incombeva tremendo su di noi, i prigionieri austriaci, che erano prima ben disciplinati e ordinati, si trasformarono a poco a poco ma irresistibilmente fino al punto da divenire un’orda disorganizzata di esseri feroci, disposti a tutto. Persone che nella vita civile esercitavano professioni libere, intellettuali, signori, li vidi gettarsi disperatamente sopra carogne di cavalli, di asili, strappando a queste un pezzo di carne, e strappatolo, mangiarlo crudo; vidi gente arrivata in ritardo disputare ad altri dei pezzi di carogna, a fare a coltellate per toglierla a chi se l’era procurata.”

La via crucis continua e peggiora ad ogni stazione: “La penna mi si rifiuta qui di narrare” rileva Semi. Ma non è finita, negli ultimi drammatici giorni “i moribondi, per voglia di mangiare si rodevano le dita, le braccia si abbandonavano pazzamente alle più inconsulte sevizie contro se stessi”. L’aberrazione arrivò al fondo: al cannibalismo, a contendersi i cadaveri.

Ma torniamo alla narrazione di Bertoldi: “L’Italia ha risposto subito all’appello dei serbi e ha deciso l’intervento […] Quando, in gennaio inoltrato, si presentano nei due porti di Durazzo e di Valona le prime avvisaglie dei superstiti della lunga marcia, lo spettacolo è impressionante: scheletri umani, ricoperti di stracci, sguardi allucinati, gente che si getta sui rifiuti mangiando qualsiasi cosa. Occorre farli scortare dai bersaglieri, condurli d’urgenza negli ospedali da campo, prima di poterli imbarcare sulle navi in attesa.

Dei cinquantamila prigionieri austriaci, ne arrivarono sulle sponde dell’Adriatico solo ventimila. Diecimila le reclute serbe, centomila i veterani, il resto impiegherà ancora settimane per giungere nei due porti. Le nostre navi trassero in salvo ottantamila uomini a Durazzo, 158 mila a Valona, per un complesso di 260 mila tra serbi e austriaci. Le ripetute traversate dell’Adriatico consentirono di sbarcare i prigionieri austriaci all’Asinara, e i serbi a Corfù. Ogni giorno venivano caricati quattromila uomini. Il vecchio re Pietro, sopravvissuto a quel calvario, arrivò a Valona il 19 gennaio. Fu condotto a Brindisi e di là alla reggia di Caserta, ospite di Vittorio Emanuele III. Il principe reggente Alessandro raggiunse l’Italia da San Giovanni di Medua. I soldati serbi, dopo un periodo di quarantena e di recupero, poterono essere nuovamente inquadrati nelle forze regolari. Il ministro degli Esteri serbo, il 16 febbraio 1915, scrisse al governo italiano: “Ultimato il trasporto dei serbi dall’Albania, esprimo i ringraziamenti più sinceri del governo reale per l’intervento immediato ed efficace della Regia Marina italiana…”.

Fu un formidabile intervento umanitario ante litteram. Allora non c’era l’Onu, non c’era la Nato, non c’erano le sedute dei ministri a Bruxelles. L’Italia utilizzò diciotto piroscafi, scortati dai cacciatorpediniere, e, sfidando i sommergibili austriaci, portò viveri e medicinali a quegli uomini stremati. Nel febbraio 1924, a Brindisi, fu scoperta una lapide a ricordo di quell’ intervento. Eccola: “Dal dicembre 1915 al febbraio 1916, con 584 crociere protessero l’esodo dell’ esercito serbo e con 202 viaggi trassero in salvo 115 mila dei 185 mila profughi che dalla opposta sponda tendevano la mano”. Un’operazione umanitaria di cui oggi si farebbe un’esaltazione spettacolare. A quel tempo, il ministero della Marina vietò che se ne parlasse.

Va aggiunto che se i serbi riuscirono ad arrivare sulla costa dell’Adriatico lo dovettero ai montenegrini. Leggiamo dalle memorie di Bato Tomašević (Montenegro, Lint Editoriale Trieste, 2007): “Sono i montenegrini ad assumersi il compito di impegnare l’esercito austriaco” che si stava preparando ad attaccare i fuggiaschi da Nord. L’episodio è accennato anche da Antonio Budini (Le memorie di guerra di papà, Editrice Beit, Trieste) un altro giuliano, ufficiale dell’esercito imperial-regio di stanza in Montenegro. “Montenegrini e Austriaci si scontrano in una grande battaglia a Mojkovac, una cittadina sulla riva destra del fiume Tara, consapevoli che dall’esito dello scontro dipende la sorte dell’esercito serbo – scrive Tomašević -. Non ci sono alternative: il nemico dev’essere fermato a ogni costo. Il popolo del Montenegro si mobilita in uno sforzo senza precedenti. Ai soldati dell’esercito regolare si uniscono formazioni di volontari accorse da ogni parte del Paese. Anche le donne danno una mano: trascinano cannoni, portano al fronte vettovaglie e munizioni, curano i feriti […]. Lo scontro avviene con incessanti assalti all’arma bianca […]. A Mojkovac i Montenegrini ottengono una squillante vittoria che consente all’esercito serbo di ritirarsi in ordine, evitando la mortale trappola. Grande in tutto il Paese è l’entusiasmo per l’impresa. Ma quando l’ultimo soldato serbo scompare oltre il confine dell’Albania, i Montenegrini si accorgono di essere rimasti soli sul campo di battaglia contro un nemico preponderante, bene addestrato, fornito di armi moderne […]. Per la prima volta nella sua storia, ricca di vittorie, il Montenegro è costretto a capitolare.”

Come accennato i serbi vengono portati a Corfù dove si riorganizzano, ma gettano anche le basi della futura Jugoslavia. Infatti nell’isola greca viene firmata il 20 luglio 1917 dal cosiddetto “Comitato jugoslavo” (formato da politici dell’Impero austro-ungarico esuli e che rappresentavano le etnie slovena, serba e croata), con i rappresentanti del Regno di Serbia, e sponsorizzati politicamente da Gran Bretagna e Francia, la “Dichiarazione di Corfù”, che rese possibile la creazione del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli.

Sorte ben diversa toccò ai superstiti austriaci, portati all’Asinara e qui tenuti in condizioni disastrose. Nel luglio dell’anno successivo, proprio mentre a Corfù si firmava l’accordo, vennero consegnati ai Francesi e di loro non si seppe più nulla.