Un garofano sfiorito troppo presto

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Riflessioni e ricordi di Gianfranco Carbone

di Walter Chiereghin

 

Nelle conversazioni più oziose, quando si tirava il fiato da altri più assorbenti impegni, tra noi della Federazione Giovanile Socialista di Trieste, capitava a volte che si parlasse di lui, un coetaneo che non era però inserito nel nostro drappello di irriducibili lombardiani, e tuttavia un antagonista interno che, nel PSI della metà degli anni Settanta, godeva comunque della simpatia personale di molti di noi. «Se c’è qualcuno di Trieste – affermò una sera Fabio – che può aspirare a diventare un giorno ministro, quello è Gianfranco». Paolo storse un po’ il naso, senza controbattere, Viviana e Giulia alzarono in sincronia le spalle, lievemente scocciate, io mi dichiarai, un po’ a malincuore, d’accordo con Fabio, Luciano confermò a sua volta, chiosando però «Anche perché è l’unico tra tutti che può desiderarlo davvero», Franco non riusciva a confezionare lì per lì una battuta di spirito e quindi tacque, come Antonino, che amava sentire i pareri dei compagni più “grandi”, Adriana cominciò a spiegarci com’è che si può ambire a diventare ministro, mentre tutti la guardavamo parlare senza propriamente ascoltarla, finché Sante la interruppe e la conversazione, a quel punto, perse d’interesse si arenò lì.

Il ragazzo oggetto di quella conversazione leggera e remota è ora un avvocato vicino ai settant’anni, Gianfranco Carbone. Ministro non è mai diventato, anche se la profetica considerazione di Fabio si era rivelata plausibile, per una carriera politica affrontata a passo da bersagliere: segretario di Federazione, assessore e poi presidente della Provincia di Trieste, consigliere regionale, assessore regionale, vice-presidente della Regione. Tutti incarichi cui accedette prima di compiere quarant’anni, età minima per candidarsi al Senato, ma al Parlamento non approdò mai, travolto dalla fine ingloriosa della prima Repubblica, e segnatamente da quella, altrettanto e più ingloriosa (ma questo è un giudizio mio, non suo), del PSI di Bettino Craxi.

Da tempo Carbone era impegnato, in questa sua stagione dell’avanzata maturità, a ricostruire col senno di poi e a mettere per iscritto le vicende che lo avevano visto protagonista negli anni della sua militanza socialista, e cioè nel ventennio che va da 1972, anno della sua iscrizione al Partito, fino al 1992. Il libro, Andare ma dove? Diario dei venti anni, è però molto più di questo. Intanto si tratta in effetti di due libri diversi, raccolti in un unico volume; di questi il secondo, evidenziato dal sottotitolo, è in effetti una cronaca che riassume puntigliosamente, anno per anno, le vicende politiche triestine e della Regione, traguardate in un’ottica ovviamente di partito: si tratta di un’autentica miniera di dati, di nominativi, di cronologie che almeno in parte suppliscono alla dispersione, conseguente alla diaspora socialista, degli archivi locali del PSI e del Circolo di Studi Sociali “G. Salvemini”, chiuso dopo la scomparsa del suo presidente, Arnaldo Pittoni. I dati che Carbone è riuscito a recuperare e ordinare cronologicamente costituiscono quindi una fonte storica di notevole interesse relativa al periodo e al territorio considerati e saranno di sicuro ausilio ad ogni seria ricerca storica anche in futuro.

Nell’altra parte, la prima, la ricostruzione ex post degli eventi si fa più personale, pone in relazione l’imperfetto di “come eravamo” col futuro prossimo di “dove andremo” racconta, sotto l’insegna dell’interrogativo esibito fin dal titolo in copertina, Andare ma dove?, di un disorientamento individuale che è parte di un altro, di carattere generazionale, condiviso cioè da quanti si sono affacciati alla vita politica grossomodo negli anni in cui lo fece Carbone, scegliendo di fare attività all’interno di un partito strutturato, sia che si limitassero ad offrire volontariamente il loro apporto di militanza, sia che sgomitassero per l’ambizione di crearsi un ruolo politico o almeno uno status personale di qualche rilievo. Oggi è preistoria quel genere di partecipazione attiva alla vita di un partito, dopo che si è venuta svuotando di contenuti la dialettica interna alle forze politiche e si sono resi necessari nuovi strumenti di acquisizione del consenso degli elettori, basati sull’identificazione di candidati noti all’opinione pubblica per ambiti diversi da quelli politici. Partiti sempre più simili a comitati elettorali, coagulati attorno alla figura di un leader che può decidere per tutti, secondo una prassi che peraltro si consolidò progressivamente, nel PSI, negli anni della segreteria di Craxi.

Certo, prima dell’affermazione del giovane e dinamico dirigente milanese il Partito era debole, diviso in correnti, ai minimi storici in termini di consenso elettorale, tanto che il segretario De Martino indicava, dopo l’insuccesso alle politiche del 1976, la via della confluenza nel PCI, opinione che determinò la sua defenestrazione e il successivo avvento del cosiddetto “partito dei quarantenni”, incoraggiato nel suo consolidarsi dal nuovo segretario autonomista.

Qualcosa di analogo avvenne anche a Trieste, con qualche ritardo e complicato dalle reazioni locali al Trattato di Osimo, che tra l’altro determinarono l’uscita dal PSI di Gianni Giuricin, di molti suoi sostenitori e di una figura di primo piano nella cultura giuliana quale fu Aurelia Gruber Benco, che divenne l’animatrice del movimento che si sarebbe in seguito strutturato nella Lista per Trieste, destinata a raccogliere oltre il 27% dei voti alle elezioni per il Consiglio comunale del 1978, mentre il Partito Socialista, segretario provinciale Carbone, si attestò su un misero 3,86% (ma non si tratta di un’attribuzione di responsabilità a Carbone: chi scrive, del resto, era allora responsabile organizzativo della Federazione triestina).

Lo spartiacque di quelle elezioni amministrative avrebbe potuto costituire per i socialisti triestini il principio della fine, mentre invece segnò soltanto il punto più basso di credibilità dal quale sarebbero risaliti alla grande, giocando sui vari tavoli della politica regionale un ruolo di primo piano che per almeno un decennio risultò determinante, soprattutto a partire dallo sparuto gruppo consigliare del Comune, dove Edoardo D’Amore – in accordo col segretario – fece mancare la copertura politica per l’elezione a sindaco di un democristiano, scompaginando così la convergenza di PCI e DC e compiendo quindi un risolutivo passo nella direzione di una collaborazione con la LpT che avrebbe in seguito fruttato, tra l’altro, due esponenti triestini nei gruppi parlamentari socialisti. Fu, questo mettere in mora i rapporti di potere di comunisti e democristiani da parte di un partito numericamente quasi inconsistente, una lotta di Davide contro due Golia, come suggerisce Claudio Martelli in una delle due prefazioni al volume di Carbone (l’altra è di Claudio Signorile). Né si deve ritenere che il tutto fosse funzionale soltanto al conseguimento di posizioni di potere. La politica che da allora si sviluppò sul piano locale, soprattutto dopo che fu preclusa a Pittoni la possibilità di sedere in Consiglio regionale per la sua quinta legislatura, ostacolò la convergenza tra democristiani e comunisti ed aprì la strada a un percorso politico più articolato, del quale in gran parte i socialisti poterono a ragion veduta accreditarsi il merito.

Ricordare poi la ferma opposizione alla Zona franca industriale sul Carso, quella – iniziata in solitaria – al progetto dell’ENEL di creare una centrale termoelettrica nella Valle delle Noghere, il sostegno dato alla creazione ed all’avvio dell’Area di ricerca scientifica e tecnologica con la prima presidenza di Fulvio Anzellotti, gli interventi urbanistici e sul traffico urbano a Trieste, caparbiamente voluti dall’assessore socialista Eraldo Cecchini (assassinato sotto casa in circostanze mai del tutto chiarite il 24 aprile 1991), gli interventi di pianificazione urbanistica e quelli di promozione dello sviluppo industriale di competenza regionale, dovuti alla presenza in Giunta dello stesso Carbone. «Era un partito che governava e riusciva a elaborare proposte per la città». (p. 34).

Poi c’erano anche le ingenuità e gli errori, certo, che in Andare ma dove? non sono taciuti, tanto quelli personalmente ascrivibili all’autore quanto quelli, certo più rovinosi negli effetti, che si manifestarono a livello nazionale e che condussero alla fine accelerata di una stagione politica e quindi alla fine dello stesso Partito, e della sua storia secolare.

La dissoluzione del PSI fu un momento drammatico per molti, ma certamente per coloro che si erano costruiti una carriera “professionale” come esponenti politici fu inevitabilmente un trauma che, nel caso di Carbone, risultò ancora più acuminato in quanto, essendo entrato ancora da studente nella vita politica, si ritrovava a poco più di quarant’anni sostanzialmente disoccupato. Lentamente, tuttavia, intraprese la professione forense, cambiando molte altre cose, anche nella sua vita privata, rimanendo lontano da tentazioni di riproporsi nell’agone politico, fatta salva, nel 2004 una candidatura alle europee nelle liste del Nuovo PSI, capitanato da Gianni De Michelis e Bobo Craxi, presto naufragato con relativo strascico di vertenze giudiziarie tra i due leader, che ovviamente presero strade politicamente divergenti.

Ma la politica è una malattia cronica, che non prevede guarigioni, nemmeno in chi si ritrae dalla scena, ma non può fare a meno di osservare criticamente quanto si muove sul proscenio che egli ha abbandonato perché allontanato oppure per sua scelta. Riaffacciarsi pubblicamente, come ha fatto con questo libro Carbone, significa in primo luogo dar conto delle differenze che si sono determinate in oltre un quarto di secolo nella vita associata, e riscontrare in primo luogo come gli scenari attuali siano dannatamente più complessi, ma anche, soprattutto per le generazioni che si affacciano ora alla scena del mondo, più ricchi di prospettive e di opportunità, per cui bisogna temere «il radicamento dell’idea che un paese chiuso, introflesso sia la strada per risolvere i problemi che abbiamo di fronte. Nel quale, dopo aver demolito il nemico interno si pensi di trovare soluzioni individuando ogni giorno un nuovo nemico esterno» (p. 193).

Dopo aver puntigliosamente raccontato un passato di cui si è fatto direttamente testimone e critico, giunto all’epilogo di questa sua lunga ricostruzione, la riflessione di Carbone guarda avanti, preoccupato più che per sé per suo figlio, per i figli della generazione nuova, declinando per loro al presente quell’ormai storica attenzione “ai meriti e ai bisogni” che Martelli aveva posto al centro del dibattito politico nella remota Conferenza programmatica del PSI a Rimini nel 1982. Meriti e bisogni che oggi «non sono riproponibili nelle forme e nei contenuti di allora. Oggi è certamente necessario rivedere le priorità, ridisegnare le politiche pubbliche per la tutela dei perdenti della globalizzazione. Ma impegnarsi per una rifondata politica riformista è necessario anche per continuare a salvaguardare quella pace che è stata la più grande conquista del continente europeo» (p. 194).

Si tratta di una risposta certo vaga ma tuttavia convincente alla domanda posta fin dal titolo del suo libro.

 

 

 

 

Gianfranco Carbone

Andare ma dove?

Diario dei venti anni

Asterios editore, Trieste 2019

Prefazioni di Claudio Martelli

e Claudio Signorile

  1. 364, euro 20,00