Regnicoli a Trieste

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Intervista all’autrice Marina Silvestri

di Walter Chiereghin

Parlandone con me e con altri amici nel lungo periodo di gestazione del libro, Marina Silvestri si riferiva ad esso chiamandolo per brevità “il libro sui regnicoli”. Il termine, piuttosto desueto altrove nella nostra lingua, designava, genericamente, i cittadini del Regno d’Italia e, apprendo dalla lettura delle prime pagine del libro che in questi giorni ha visto finalmente la luce, fu usato anche nei documenti amministrativi delle varie autorità austro-ungariche per designare gli immigrati nelle regioni dell’Impero provenienti dall’Italia e quindi sudditi del limitrofo Regno. Per la prima volta, pare, il termine fu utilizzato nel testo dello Statuto Albertino, che all’articolo 24 riconosceva l’uguaglianza davanti la legge di tutti i “regnicoli”.

L’opera che adesso è pubblicata, Lassù nella Trieste Asburgica. La questione dei regnicoli e l’identità rimossa, racconta con dovizia di particolari le vicende legate alla crescita, numerica, sociale e culturale di una minoranza etnica che visse la paradossale situazione di essere appunto minoranza in una città indubbiamente cosmopolita, ma la cui etnia largamente maggioritaria era la medesima, italiana, dei regnicoli.

Pur focalizzando l’attenzione su questi italiani del Regno, attratti verso la città adriatica dalla prospettiva di migliorare le proprie condizioni di vita trovando con relativa facilità lavoro in una città che viveva, prima della Grande guerra, una sua ultima stagione di floridezza economica, il lavoro della Silvestri non manca di inserire questa colonia di “migranti” nel contesto economico e culturale, fornendo un quadro d’insieme che costituisce, sulla scorta di quanto prodotto negli ultimi anni di studi storici e con l’analisi di documenti in molti casi inediti, un’approfondita analisi della realtà socio-economica che fanno del libro un fondamentale contributo alla storia di Trieste negli anni che vanno da prima dell’istituzione del Portofranco nel 1719 (ma con importanti incursioni negli antefatti, fin dall’epoca medievale) alla vigilia del primo conflitto mondiale, fornendo quindi una visione complessa del contesto in cui si inserisce la vicenda dell’immigrazione triestina dall’Italia.

 

Si ha l’impressione che in questa tua importante ricerca storica tu rimanga saldamente ancorata alla tua professionalità di giornalista, nel senso che nel descrivere l’ampio affresco della società triestina nel suo tumultuoso crescere negli anni in cui la città era fortemente attrattiva per larghe masse di persone, ti sforzi di trovare ed indicare una sintesi che dia ragione di una realtà complessa e problematica. Quanto del tuo “mestiere” ti ha assistito in questa tua fatica?

Ho esposto i fatti e citato le fonti tenendo separati i giudizi e le ricostruzioni degli storici per fornire al lettore un quadro il più possibile esaustivo e obiettivo. Ho fatto quello che per un periodo era il mio lavoro in televisione prima di passare in cronaca, cioè programmi di divulgazione, quindi un mix di filo narrativo, descrizione d’ambiente, giudizi storici e quella sorta di interviste ‘impossibili’ che si possono ricavare dai diari e dalle memorie di testimoni diretti, in questo caso Crispi, Nigra, Sforza, i rapporti consolari, o i libri di Vivante, Benco, Oberdorfer, e ancora i pamphlet di Barzini e Gayda. Le citazioni sono ampie, perché lascio parlare i documenti: è interessante la prosa d’epoca, la vivacità di alcune storie, le sottigliezze della diplomazia nel trattare gli argomenti. Sono voci che hanno corpo, testa, anima, carattere, passione civile, competenza e acume politico. Molti sono i passi riportati dai giornali di Trieste, dal Piccolo, dall’Indipendente, dal Lavoratore, dal Corriere Adriatico, dall’Edinost, e dai giornali del Regno, La Stampa, il Corriere della Sera, l’Avanti, e da quelli dell’Impero. Sono pagine molto significative che ti fanno entrare nella temperie dell’epoca.

In questo volume tu tratteggi la complessa ed eterogenea massa di dati che narrano di una migrazione costante dall’Italia, soprattutto dalle regioni contermini e dalla costa occidentale dell’Adriatico per individuare le direttrici di un esodo che oggi definiremmo a valenza economica verso la nostra città: quando è iniziato questo flusso?

Da sempre direi, e la risposta ce la dà l’archeologia… naturalmente non mi sono spinta tanto in là fino al caput adriae. Ma le direttrici sono antichissime e risalgano a quando l’Adriatico era un mare in cui le genti si mescolavano e con le genti le culture, e dove, dopo la fine dell’Impero romano era nata lungo le coste una civiltà comunale urbana. Quando Venezia tramonta, Trieste ne eredita la funzione. Una direttrice rimasta inalterata, ad esempio, è quella dalla Puglia ben descritta per il Medioevo da Francesco Babudri che si rifà agli studi di Jacopo Cavalli comparati agli statuti di Bari; poi l’emigrazione da Senigallia, Ancona, Trani, dove erano presenti comunità ebraiche; molte famiglie si spostarono a Trieste, trampolino verso i mercati dell’entroterra europeo. Arrivarono inoltre membri anche dalle comunità di Ferrara, Modena e altre del Nord. Un’altra direttrice importante è quella della via Emilia che da Ravenna va a Piacenza. Troviamo nell’Ottocento regnicoli di Lugo, Imola, Bagnacavallo. Poi la zona del delta del Po, dove era fiorente il contrabbando che già nel Seicento eludeva le rotte della Serenissima e penetrava la Lombardia a ovest e ad est si dirigeva verso Trieste con destinazione i mercati della Carniola,dell’Austria, della Boemia. Quando viene istituito il portofranco i collegamenti esistenti a Trieste con la Penisola sono per gli Asburgo una gran bella opportunità.

Nella tumultuosa crescita demografica triestina nei secoli XVIII e XIX, cosa connotava l’immigrazione italiana rispetto alle comunità ebraiche, greche, armene, albanesi, tedesche, inglesi, e svizzere che affluivano in città?

Lo studio basilare sulla crescita demografica di Trieste dopo l’istituzione del portofranco è La Storia economica di Trieste scritta e curata da Roberto Finzi e Giovanni Paniek. C’era un’emigrazione dalle regioni contermini, il Friuli, la Carniola e l’Istria; contadini inurbati che sopperivano al bisogno di manodopera dell’emporio e donne impiegate nei servizi domestici, ma dal Friuli ad esempio erano arrivati anche possidenti e membri delle comunità ebraiche maggiori, Udine, Cividale, San Daniele, architetti, capomastri e scultori, come anche dall’area lombarda; dall’Istria e da Chioggia pescatori e marinai, dalla Dalmazia capitani e marittimi che però si trasferivano anche dalla Puglia e dalla Campania, dalla Sicilia. Mentre dalla Penisola arrivavano mercanti, negozianti, sensali, agenti di cambio e di commercio e banchieri. Emigrava a Trieste chi voleva fare affari. Le Nazioni che tu nomini venivano per commerciare sulle rotte dell’Oriente, – e con numeri percentualmente limitati di famiglie – ma i mercati principali erano in primo luogo gli Antichi Stati pre-unitari e chi dagli Antichi Stati era emigrato era una specie di avamposto, che facilitava i contatti con le città di provenienza. Gli Stati pre-unitari erano tutti nella sfera d’influenza economica degli Asburgo. Un altro aspetto che connotava l’emigrazione italiana era quello di non essere un’emigrazione ‘nazionale’, bensì espressione di identità regionali ciascuna con la propria diversa storia che i dialetti parlati dai nuovi venuti rispecchiavano. Erano portatori di identità plurime in una città di cultura plurima. Sicuramente questo facilitò la fusione e il percepirsi rapidamente ‘triestini’. È significativo inoltre che dopo l’Unità ci sia un’emigrazione a Trieste dagli scali-portofranco del Regno delle Due Sicilie, degli Stati Pontifici, dal Granducato di Toscana e del Regno di Sardegna, chiusi dal nuovo Regno. Perché a Trieste è ancora possibile operare senza franchigie con le stesse opportunità di prima.

Con il completamento del Risorgimento italiano in esito alla Terza guerra d’Indipendenza nel 1866 è cambiato in qualche misura l’atteggiamento delle autorità austro-ungariche nei confronti dei nuovi abitanti italiani?

Il 1866 è l’anno della svolta. Chi emigra dal Regno è diventato per l’Austria uno straniero che deve registrarsi al Consolato, il Consolato generale del Regno d’Italia a Trieste. I regnicoli che si iscrivono nell’arco temporale che va dagli ultimi mesi del 1866 a tutto il 1867 sono poco più di 5mila. Ne riporto nomi, provenienze e mestieri. Molti vivono sicuramente a Trieste già da un po’, ma devono regolarizzare la loro posizione se mantengono la pertinenza nel Regno. Per ottenere la cittadinanza austriaca bisognava esserci da almeno dieci anni e dimostrare di avere contribuito al benessere dell’Impero. La maggior parte sono friulani, tantissimi i facchini, i falegnami, i fabbri; poi esattori, impiegati, contabili, calzolai, barbieri e parrucchieri; sarti e tessitori della Carnia, salumai della Val Tramontina, caffettieri e liquoristi della zona di San Quirino. Lungo il fiume Judrio è calato un confine rigido e chi commerciava con Trieste o vi lavorava come stagionale, decide di trasferirvisi, anche perché nel Regno la politica economica mortifica le economie locali, dalla proto-industria casalinga all’artigianato. Ci sono poi vetrai e i fruttivendoli del Cadore; molti i veneziani, dagli ingegneri navali ai marinai, calafati e remieri chioggioti; dall’area veneta e lombarda dottori in legge e medicina e farmacisti, ombrellai dal Lago Maggiore, mentre dalla costa adriatica romagnola, marchigiana e pugliese arrivano negozianti, commercianti, trafficanti. Commercianti di vino e olio dalla Puglia, di vino e agrumi dalla Sicilia, così per fare qualche esempio. Gli stranieri in Austria potevano lavorare liberamente nel settore privato, non negli impieghi pubblici e nell’amministrazione dello Stato, né nell’industria che produceva armamenti. I professionisti dovevano ottenere un’abilitazione.

Quanti emigravano a Trieste dall’Italia si trovavano a vivere una condizione particolare per un emigrato, venivano cioè accolti in una città “straniera” formalmente, con legislazione, rapporti sindacali e amministrativi, salari e condizioni materiali diversi (sotto molti aspetti migliori) di quelli che si erano lasciati alle spalle, e tuttavia “italiana” nel senso della cultura prevalente, della lingua, della stessa relativa vicinanza ai luoghi di provenienza, che facilitava il mantenimento di un cordone ombelicale con la madrepatria e i ricongiungimenti familiari. Ciò ha fatto di Trieste una meta privilegiata nei flussi migratori dall’Italia?

Era una meta privilegiata per coloro che avevano già un punto di riferimento in città. L’emigrazione italiana a Trieste risponde alla dinamica delle ‘catene migratorie’; così sarà anche alla fine dell’Ottocento, quando diventerà uno dei rivoli della grande emigrazione verso i Paesi europei prima, le Americhe successivamente. Da Trieste si partiva con la compagnia di navigazione Austro-Americana dei Cosulich. Le direttrici non cambiamo, aumenta il flusso dalle stesse località, e la molla è la miseria e non più la ricerca di migliori opportunità; ad esempio quella della Puglia che era essenzialmente costiera si allarga alle Murge, e non ne nascono quasi di nuove se non minatori dall’Abruzzo e dalla Calabria. Sono le direttrici dei traffici dei secoli precedenti.

Considerata l’ampia finestra temporale sulla quale fondi la tua analisi, le vicende delle quali ti sei occupata prevedono una dinamica anche accelerata dei rapporti sociali: penso ad esempio alla freddezza della popolazione triestina rispetto ai moti che nel 1848 hanno attraversato tutta l’Europa, poi ai nuovi equilibri territoriali intervenuti nel 1866, quindi ancora all’insorgere di contrapposti nazionalismi nelle componenti etniche presenti, soprattutto in quella italiana e in quella slava, e poi ancora a mitigare quelle tensioni ma ad aprirne altre la crescita del movimento socialista. Potresti sinteticamente indicare il ruolo che in tali accelerate dinamiche ebbero a Trieste i regnicoli?

Chi lasciava il Regno lo faceva soprattutto per motivi economici, ragione per la quale conoscendo bene cosa lasciava, rimase estraneo ai fervori irredentisti. Ma ci fu anche un’emigrazione politica seppur ridotta e in un certo senso favorita dal Regno per liberarsi da scomodi agitatori. Va detto che nell’Impero austro-ungarico c’era sorveglianza ma anche tolleranza verso le idee democratiche e socialiste, meno verso l’anarchia. A Trieste c’erano garibaldini e i mazziniani, dalla Romagna e dalle Marche si rifugiarono e operarono un consistente gruppo di anarchici, e numerosi socialisti anche da Veneto, Lombardia e dal Sud del Paese, che divennero redattori del Lavoratore. Il socialismo a cui aderivano italiani e sloveni, ebbe un ruolo importante per i regnicoli perché essendo internazionalista li tutelava sindacalmente quanto i sudditi dell’Impero. Da parte loro i sudditi dell’impero – a Trieste gli sloveni – protestavano nei confronti del lavoro affidato a ‘stranieri’. Ma nacquero anche sindacati su base nazionale tanto sloveni che italiani. I grossi problemi erano soprattutto nel settore industriale. Ci furono importanti congressi e i quadri triestini, soprattutto Antonio Gerin ‘esportarono’ l’esperienza triestina in tutto l’Impero dove erano impiegati lavoratori italiani per la loro tutela, per raccogliere fondi per il sostentamento nei periodi di disoccupazione o per permettere loro di spostarsi là dove c’era lavoro. I socialisti si opponevano ai nazionalismi, ma erano lealisti nei confronti della monarchia. Il suffragio universale per cui si battevano e poi ottennero nel 1906, era caldeggiato dallo stesso Francesco Giuseppe che non amava i politici liberali e nazionalisti che rendevano ingovernabile il Parlamento con veti incrociati, e auspicava che l’allargamento degli elettori potesse ridare voce ai ‘suoi popoli’ (e così a conservatori e cattolici). A Trieste c’era dialogo fra Valentino Pittoni e il Luogotenente Konrad Hohenlohe, e non solo a Trieste, tanto che erano chiamati per dileggio gli imperial-regi socialisti.

E come interferiva lo Stato ospitante, qual era l’atteggiamento delle autorità nei confronti di questi immigrati, che immagino fossero visti con sempre maggiore sospetto via via che prendevano piede i fervori irredentistici?

A tutela dei regnicoli c’era il Consolato che si trovò a gestire un numero enorme di espulsioni dai primi del Novecento in avanti, circa cento al mese. Bastava incorrere in un’infrazione anche lieve e l’espulsione era immediata. E non mancarono delazioni alla Polizia attuate a questo scopo. I Consoli si attenevano alla politica della Triplice Alleanza e i reggenti liberal-nazionali del Comune li misero più volte in difficoltà a causa della manifestazioni irredentiste che finivano sotto al balcone del Consolato. I regnicoli non vi partecipavano, ma preoccupava il loro numero in continua crescita che dava fiato alle richieste del Comune liberal-nazionale e alle rivendicazione degli irredentisti qui e in Italia. Alla scoppio della Grande Guerra il loro numero è calcolato fra le 38mila e le 50mila presenze. Se un sussulto di orgoglio nazionale ci fu, lo si riscontrò solo per la guerra di Libia, perché molti furono richiamati e le famiglie avevano un congiunto a combattere. Preoccupava di più Vienna la politica del Comune che assumeva per le municipalizzate quasi solo regnicoli. Nel 1913 i decreti di espulsione di questi impiegati, da parte di Hohenlohe, ultimo atto di dissuasioni ad impiegare lavoratori italiani nelle fabbriche, arrivarono alla stampa internazionale.

Dai registri di matrimonio emerge un quadro di integrazione?

Non solo dai registri di matrimonio, anche dalle richieste di sussidio per i figli minori avanzate durante la guerra. I friulani hanno sposato donne triestine italiane e slovene, lo stesso i veneti e i romagnoli che si sono uniti di preferenza a donne istriane, mentre marchigiani e i pugliesi a donne dalmate. E ci sono donne friulane che hanno sposato abruzzesi e calabresi. L’elenco riportato nelle appendici è un affresco illuminante.

Il sottotitolo del tuo libro parla di un’identità rimossa. Vuoi chiarire che cosa intendi?

C’è un testo dello storico Pier Paolo Dorsi degli anni Ottanta intitolato I regnicoli, una componente dimenticata della società triestina. Sono partita da questo aggettivo ‘dimenticata’ e mi sono chiesta quali fossero le ragioni. Penso che gli anni fra le due guerre mondiali e quelli drammatici immediatamente successivi alla seconda, abbiano rappresentato una cesura profonda. Prima, a Trieste facente parte di uno Stato che attraverso la politica del fascismo tendeva ad eliminare le diversità linguistiche e gli stessi dialetti, era divenuto difficile mantenere memoria di queste identità fluida, alimentata da successivi flussi dalla Penisola che si erano mescolati con i residenti e stabilizzati. Successivamente con la definizione dei nuovi confini e l’esodo istriano e dalmata è venuta a mancare l’identità adriatica che aveva il baricentro a Trieste. Ma di questi fatti è rimasta traccia nel senso di diffidenza e insofferenza verso lo Stato, nell’esasperato romanticismo, nel patriottismo anacronistico osservati tanto da Fabio Cusin che da Fulvio Tomizza. Atteggiamenti che sanno di rimozione.

 

copertina:

 

Marina Silvestri

Lassù nella Trieste asburgica.

La questione dei regnicoli

e l’identità rimossa

LEG, Gorizia 2017

  1. 354, euro 28,00