SULLE ORME DI SLATAPER

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Moj Kras: nuova traduzione slovena per Il mio Carso

di Roberto Dedenaro

 

È, al solito, merito di un piccolo editore, nella fattispecie la Beit di Piero Budinich, se si compie di tanto in tanto un’impresa editoriale di rilevante interesse culturale o anche sociale. In questo caso si tratta di una nuova traduzione in sloveno del libro di Slataper, Il mio Carso, un classico del 1912 che è alla base della cosiddetta “letteratura triestina”, intendendo con ciò la letteratura di lingua italiana sviluppatasi quando già Svevo aveva scritto Una vita e Senilità, ma ancora Trieste e il mondo non ne sapevano pressoché nulla.

Ne è nato un bel volume bilingue, con la versione slovena affidata a un poeta, Marko Kravos, che ha dovuto rimettere mano a una sua precedente versione e cimentarsi con un testo certo non facile, restituendolo in uno sloveno contemporaneo, e compiendo quindi una doppia riflessione linguistica e storica sull’originale slataperiano.

Per un’incollatura, il libro ci è capitato tra le mani troppo tardi per darne notizia e commento sullo “speciale” dedicato a Slataper e pubblicato lo scorso 3 dicembre, nel centenario della morte dello scrittore. Rimediamo ora, a poche settimane di distanza, grazie alla cortesia dell’editore e all’estensore che ci consente di pubblicare integralmente la postfazione di Roberto Dedenaro, che è anche la testimonianza di una gita/pellegrinaggio a Ocizla, alla casa dove fu scritto Il mio carso.

 

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Fu Alfredo Vernier, un uomo molto colto, funzionario dell’Ufficio Cultura della regione Friuli Venezia Giulia, allora appena pensionato, che su Slataper aveva scritto la sua tesi di laurea e aveva potuto parlare a lungo con Giani Stuparich, a portarci a Ocizla, per la prima volta. Eravamo un gruppo di amici e facevamo parte del Gruppo 85, un’associazione nata a Trieste per favorire i contatti e l’amicizia fra italiani e sloveni al confine orientale, che fra i suoi fondatori contava Pavle Merku, Claudio Magris, Elvio Guagnini, Fulvio Tomizza, Alojz Rebula, per fare solo alcuni nomi. Ne ho un ricordo molto nitido anche se sono passati quasi trent’anni da quel giorno: un bel giorno di tarda primavera, uno di quei giorni in cui il Carso da il meglio di sé. Volevamo vedere la casa in cui Scipio Slataper aveva scritto Il mio Carso. Sapevamo quale fosse, esistono diverse fotografie che la inquadrano e fanno vedere una targa commemorativa, poi distrutta durante l’ultimo conflitto mondiale. Era una giornata piena di luce, questo ricordo, e la casa era bianca, restaurata di fresco. Ci avvicinammo incerti, ma fummo notati immediatamente e una donna usci, ci accolse con simpatia e ci disse che sì, la casa era quella, i nonni raccontavano sempre la storia del giovane cittadino venuto a scrivere proprio li, ad Ocizla, quel libro cosi importante. I tetti di paglia non c’erano più e il Carso si era e si è molto rinverdito, in qualche punto diventa difficile scorgere il biancheggiare del calcare, tanto l’erba ha coperto tutto, quasi anche i ricordi.

E difficile dire cosa rappresenti la parola Carso per i giovani triestini, oggi, nuove mobilita hanno modificato il senso dello spazio e della storia, e lungo i sentieri contrassegnati dai segnavia bianchi e rossi del CAI, è difficile incontrare qualcuno che abbia meno di quarant’anni. Ma per le generazioni precedenti la parola Carso aveva un suono particolare: il suono di un mondo magico e lontano, la noncittà che si apriva aspra e misteriosa dopo una salita faticosa. È forse difficile spiegare come dentro ad una distanza di cosi pochi chilometri le prospettive potessero cambiare cosi radicalmente. Su un’altura che non raggiunge i seicento metri di quota, fino ai primi anni del ’900 si poteva trovare il libro di vetta, dove apporre la propria firma a conferma dell’avvenuta ascensione, in linea d’aria una decina di chilometri dal centro di Trieste. All’inizio del ’900 questo “altrove” era raggiungibile dalla città principalmente a piedi, non esisteva nemmeno la bella strada costiera, che verrà realizzata solo negli anni ’30, attraverso mulattiere spesso antiche di secoli come quella che da San Giovanni si inerpica sull’altopiano carsico passando sotto allo slataperiano monte Kal, strada che qualcuno chiamava, forse un po’ pomposamente, strada romana. Il monte Kal, anch’esso un’irrilevante collina, che per noi italiani si diceva monte Spaccato, oggi è quasi irriconoscibile per i molteplici percorsi stradali che ne innervano le pendici, ma conserva ancora i resti di una lapide con iscrizione degli anni ’30 che, appunto, sottolinea come quel sentiero scosceso fosse, nelle intenzioni di chi la lapide ha scritto, la via attraverso la quale le legioni romane avevano conquistato, come si doveva dire in quegli anni, la Carsia Giulia.

Il Carso, dunque,è stato ampiamente domato, dall’abbandono dell’allevamento brado, dallo sfalcio che pochi ancora eseguono soprattutto dal diluvio di cemento che lo investito negli ultimi anni, a partire dalla costruzione prima dei campi di raccolta e stazionamento e poi dei borghi accanto agli insediamenti storici, per accogliere i profughi dall’Istria, poi i triestini che volevano la villetta in campagna,

poi gli stessi abitanti che volevano una casa nuova con tutte le comodità della città. Insomma il carso di Trieste è divenuto, come quasi tutt’ Europa, una periferia, con le sue luci i suoi asfalti malmessi, le zone artigianali, prima utilizzate e poi dismesse coi capannoni abbandonati e mai utilizzati che, tristi, ti guardano passare. Il confine ha salvato dal violento assalto solo le zone a lui più prossime.

In questo paesaggio, ora ammaestrato, Slataper vide il luogo ove una qualche rinascita, forse, era ancora possibile: Ocizla divenne, nel 1911, l’omphalos dello straziato mondo slataperiano, in cui sembrano inconciliabili l’io vitalistico immerso nella primigenia gioiosa durezza del paesaggio carsico e l’uomo adulto che è costretto in città ad una vita depotenziata il cui spirito defluisce in forme stanche e scontate

e la possibilità di salvezza di chi un tempo è stato vivo e quella di poter conservare in se l’antico legame con il natio borgo selvaggio, con la terra incontaminata. Una dicotomia che si palesa da subito nel bellissimo, lirico inizio del libro: Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; – ma presto devo tornare in patria perche qui sto molto male.

Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. E il libro si chiuderà con la ricucitura di ogni separatezza: Slataper sceglie la città come luogo degli uomini, del lavoro eticamente concepito, ma vi può tornare anche perché, lungo quella sorta di viaggio frammentario e iniziatico del Mio Carso, ha conosciuto, attraverso la discesa negli abissi più bui della sostanza dell’essere, l’aspetto terribile, che è l’altra faccia della gioia insita nella natura. Cosi egli ha raggiunto la certezza dell’impossibilita di venire a capo del mistero di un’esistenza cui non ci si può rifiutare di appartenere. è cosi che ritorna in città, rigenerato, finalmente deciso ad assumersi intero il peso della vita nel dolore e nella gioia, amando e lavorando.

Solo quattro anni dopo Scipio concluderà la sua breve vita nelle trincee del Podgora, avrà fatto in tempo a sposarsi con Gigetta Carniel, l’amica di Anna Pulitzer, Gioietta, il cui suicidio aveva aperto o forse approfondito quella lacerazione che Il mio Carso aveva cercato di curare. Ruggero Fauro Timeus era morto solamente qualche mese prima; Giani Stuparich, doveva assumersi il gravoso compito di essere il testimone di quella straordinaria generazione che aveva tentato, da punti di vista diversi, di combattere una guerra giusta e si era ritrovata a combattere una guerra crudele e insensata come lo sono tutte le guerre.

Il mio Carso è uno scritto complesso, privo di una vera e propria trama narrativa, che procede per slanci lirici, richiede un lettore avvertito, un libro che al di la dei suoi lettori reali ha fornito un contributo alla creazione del topos della primitivita dell’ambiente carsico,della sua asprezza feroce.

Al di là di ciò, la cultura slovena ha spesso guardato con sospetto Slataper e il suo romanzo, visto come l’opera di un irredentista che vedeva un ruolo imperialista per l’Italia ai confini orientali. La prima traduzione in sloveno dovrebbe essere degli anni ’50, fatta dal professor Janko Jež, ma probabilmente Igo Gruden, poeta di Nabresina e Alojz Gradnik dovevano aver letto il libro, anche se sono dati che meriterebbero un più preciso riscontro. è la generazione che matura negli anni ’50/’60 – Pavle Merku, Alojz Rebula, lo stesso Marko Kravos – che leggerà il libro in maniera diversa e ne vedrà aspetti di quel ritorno alla natura di cui è protagonista la poesia di Kosovel, anche se ritengo che il paesaggio di Kosovel sia per tanti aspetti, che non è possibile qui richiamare, profondamente diverso dal carso slataperiano.

Il romanzo è innanzitutto, come abbiamo sottolineato in più punti, un lacerato scritto esistenziale, che contiene straordinari slanci lirici, ma era forte la tentazione soprattutto nell’acceso clima del secondo dopoguerra triestino di leggerlo valutandone pagina dopo pagina, una sorta di filo- o anti-slovenità. Per la mia generazione furono le iniziative di studio legate al convegno Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze e poi quelle, alcune delle quali organizzate dallo stesso Pavle Merku, tenutesi per il centenario della nascita di Scipio Slataper a indicare la strada per una considerazione più approfondita e corretta dell’opera.

A più di cent’anni dalla sua realizzazione, Il mio Carso rimane, dunque, un’opera di grande modernità ed una delle migliori testimonianze di un passaggio e un momento particolare della cultura italiana e triestina in particolare, un libro fondamentale, insomma, per capire la città, la sue temperie culturale ad inizio secolo e le scelte e gli stati d’animo che furono protagonisti, anche successivamente, della drammatica storia di queste terre, non solo di quella letteraria come ha fatto vedere, fra gli altri, il bellissimo libro di Renate Lunzer, Irredenti redenti, intellettuali giuliani del ’900.

Un’ultima parola va detta della traduzione: credo che Il mio Carso, per gli aspetti lirici della sua scrittura, per le caratteristiche della lingua, non sia assolutamente un libro facile da tradurre, se mai ne esistesse uno. Marko Kravos lo aveva già tradotto trent’anni or sono e penso si sia trattato di un’ottima traduzione, l’ha completamente rivisto e praticamente ritradotto per quest’occasione: a lui, oltre ai dovuti complimenti anche un abbraccio fraterno per aver tenute sempre presenti e vive le motivazioni di quel gruppetto di amici che alla fine degli anni Ottanta andarono ad Ocizla a cercare qualche traccia del Mio Carso.copertina kras