QUATTRO FILM DA VEDERE

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Cinema minore? Ma neanche per sogno!

lAURENCE aNYWAYSsistema complessoa perfect daydi Gianfranco Sodomaco

 

Cinema minore? Ma neanche per sogno: distribuzione alternativa rispetto a un pubblico sempre più immaturo, attratto solo dalle pellicole commerciali, ormai girate con lo stampino (vedi alla voce, ad esempio, ‘commedia all’italiana inesauribile’, oppure ‘endless horror yankee’).

Abbiamo visto, in un cinemino di cento posti, Laurence Anyways, di Xavier Dolan, ormai più che enfant prodige del cinema internazionale. E la distribuzione è riuscita addirittura a metterci i sottotitoli italiani (sic!). Allora… Laurence anyways, ovvero un uomo, ‘in ogni caso’ o ‘alla meno peggio’, a seconda delle situazioni. Laurence (Melvil Poupaud), siamo a Montreal, giovane insegnante liceale ben voluto (e aspirante scrittore), arrivato a 35 anni, scopre di sentirsi una donna e decide, convinto, di cambiare vita, vestiti, foggia ecc. Non vuole ambiguità, soprattutto con se stesso. Ha un solo, importante problema: ha una relazione, già da tempo, con Fred (Fréderique, una caparbia giovane regista) e Fred (Suzanne Clèment), messa al corrente del cambiamento del suo uomo, dopo un breve periodo di crisi/separazione, ricostruisce la coppia. Laurence e Fred si vogliono troppo bene e pensano che potranno amarsi come una normale coppia omosessuale.

Dunque la storia, nonostante Laurence perda l’insegnamento, venga preso a botte dal solito omofobo cretino incontrato in un bar ecc., riprende e, tra alti e bassi, ‘tradimenti e riconciliazioni’, riesce ad andare avanti per dieci anni: poi, quasi per consunzione…, ma quei dieci anni saranno fondamentali, indimenticabili e Xavier, nell’ultima scena, ci rivela il playback quasi a suggerire che potrebbe idealisticamente ricominciare.

Xavier Dolan è al suo terzo film ma a me piace ricordare il suo secondo, Mommy (dopo aver girato, a 19 anni, non a caso, J’ai tué ma mère), di qualche anno fa; è il dramma di una vedova, Diane la mamma di Mommy, quindicenne, a cui vuole un gran bene ma lui, direbbe lo psicologo, è affetto da disturbo oppositivo (litiga con tutti, compresa la madre) e sindrome da deficit di attenzione e iperattività (quindi, facendo una fatica terribile a relazionarsi col mondo, entra ed esce dal riformatorio). Dice Dolan: “Diane è un ruolo di madre coraggio…, la vita è crudele, ma io no”. Cioè a dire che quei due personaggi li ha amati, e che la madre continuerà a voler bene a quel ragazzo disgraziato, deviante, anche quando sarà costretta a riportarlo, contro la sua volontà, nel riformatorio per sopravvivere.

Ebbene Dolan ha voluto bene anche a Laurence e Fred, perché l’atmosfera è la stessa, piena di tenerezza e sensibilità: i due decidono che la parola ‘speciale’ non si deve usare, sarebbe solo uno stupido perbenismo, no, la storia che essi vivono è ‘normale’, anche se attraversano esperienze e fanno incontri i più diversi. Una nota artistica: Dolan è un estetizzante, mette una cura particolare nell’inquadratura, nelle angolazioni delle riprese, nei costumi, nei colori, nella ricchezza dei dialoghi, nella colonna sonora rigorosamente anni ’80 e ’90, ma queste particolarità non danno fastidio. È davvero un amore per il bello, per un cinema tanto più raffinato quanto più la storia è tesa, disperata.

Un’altra coppia, ormai in età, ma gli attori che interpretano 45 anni, di Andrew Haigh, noi li ricordiamo giovani, quando il cinema inglese (anni ’60) aveva dato vita al movimento “Free cinema”, insomma la nouvelle vague ‘insulare’ che però ha girato mezzo mondo: gli attori sono Tom Courtenay e Charlotte Rampling. Come dimenticare Tom in Gioventù, amore e rabbia (1962) o Billy il bugiardo (1963). Come dimenticare Charlotte in Non tutti ce l ‘hanno o in Georgy, svegliati? Nostalgismo antistorico? No!, buon cinema che resiste alle scosse della storia.

Cosa succede a Kate e Geoff, sposati felicemente da quarantacinque anni e prossimi a celebrare l’anniversario? Che Geoff viene a sapere che è stato ritrovato sulle Alpi Svizzere, ibernato, il corpo del suo amore giovanile, Katya, precipitato in un crepaccio cinquant’anni prima. Di quella storia i due hanno parlato poco o niente. Ma per Geoff è stata una classica rimozione perché quella storia era legata anche e soprattutto alla sua esperienza di contestatore libertario, politicamente di una sinistra radicale, quella ‘Sinistra’ che dagli anni ’80 in poi è stata spazzata via dalla signora Thatcher, dal signor Tony Blair ecc. La notizia rompe la rimozione di Geoff e fa riaffiorare tutta una serie di ricordi, lo mette in crisi fino al punto da pensare che tutti quegli anni di felice matrimonio altro non sono serviti che a coprire una grande amarezza psicologica e sociale, e mette in crisi anche Kate che adesso sa con certezza che nel cuore dell’uomo c’è ancora Katya (ha conservato tutte le sue fotografie, lettere ecc.), non sa che fare, si sente impotente e non sa come reagire a quell’ uomo sempre mite e che adesso si è incupito. Il film si chiude sulla festa del loro anniversario di matrimonio e sulle note delicate di una famosa canzone di quell’epoca, Smoke get in your eyes dei Platters, e sembra che in qualche modo la crisi sia stata superata, ma non ne siamo sicuri: l’ultimo fotogramma ci mostra Kate che piange e non di felicità, a volte il passato, certo passato, non si cancella, lascia il segno. E lo spettatore avveduto capisce che non a caso il regista ha scelto quei due attori e non altri, perché quei due attori, come dicevamo, quel passato l’hanno vissuto da protagonisti. Eccellenti le interpretazioni dei due (Orso d’Argento ex aequo ad ambedue al Festival di Berlino quali migliori interpreti) che ricordiamo anche giovani: difficile per lo spettatore ‘coetaneo’ sensibile non farsi venire un groppo in gola. Nostalgismo antistorico?

Per chiudere due film originali, per la storia e lo stile. Il primo è: La felicità è un sistema complesso, di Gianni Zanasi, autore appartato ma interessante per l’equilibrio che mantiene sempre, nell’analisi della società italiana (Non pensarci, 2008), tra profondità sociologica e approccio ironico. Enrico Giusti (Valerio Mastandrea in piena forma) fa di mestiere il salvatore di aziende che stanno per andare in crisi facendosi vendere le quote di amministratori incapaci (suo padre è stato uno di questi ed è scappato in Canada). È un giovane capitalista intelligente? Fino ad un certo punto: quando incontra, letteralmente, due ragazzi che ereditano dal padre una situazione economica disgraziata ma non vogliono né delocalizzare né ridurre il personale, sta dalla loro parte, cambia la sua strategia e, finalmente, riesce a rispondere alla sua ‘vera coscienza’. Gli cambia la vita anche l’incontro, piuttosto misterioso, con una ragazza israeliana, abbandonata dal fratello ma decisa ad affrontare le difficoltà della vita. Happy end da commedia? Non proprio, a Zanasi non interessa tanto la storia ma, appunto, ‘la complessità’ dei sentimenti, delle emozioni nelle difficoltà della vita. In questo è un piccolo maestro. Il film è ricchissimo di passaggi e commenti musicali ma non danno fastidio, aiutano a creare un’atmosfera un po’ sospesa e vagamente surreale. Da vedere, lascia lo spettatore a porsi più di qualche problema.

Il secondo è: Perfect Day, di Fernando Leon De Aranoa, regista pressoché sconosciuto in Italia, ma non in Spagna. Un regista che ha già girato dei documentari in Spagna e in Bosnia e in Bosnia è tornato per regalarci un capolavoro. Perché? Perché bisogna essere molto bravi a ricostruire l’atmosfera della tragedia, del massacro balcanico appena finito (1995), con la popolazione de facto ridotta alla fame, e inserire la storia di quattro operatori umanitari che devono fare i salti mortali (ridendoci intelligentemente sopra altrimenti rischiano di farsi travolgere per qualsiasi ‘inezia’: la mina vagante, i soldati che non hanno ancora capito che la pace è stata firmata, i caschi blu dell’ONU che, dopo aver lasciato che i serbi facciano strage a Srebrenica di migliaia di musulmani bosniaci, vagano per un territorio che non conoscono) per tirar fuori da un pozzo il cadavere di un uomo in modo che non infetti l’acqua, necessaria in quel momento come il pane: ma non riescono a trovare la corda. Alla fine ce la faranno ma lascio lo spettatore immaginare l’assurdità di una situazione del genere, a maggior ragione quando i protagonisti (interpretati in primis da un Benicio del Toro da Oscar e da una ‘spalla’ come Tim Robbins) oscillano tra paura e ironia, irrazionalità e buon senso. E il film scorre (e non danno fastidio nemmeno i sottotitoli, abbiamo visto il film in versione originale) e lo spettatore rimane lì, allibito e pensieroso, a porsi molti, ma molti problemi.